Massimo Zubboli. Ha navigato come ufficiale su navi che lo hanno portato a conoscer il mondo. Insegnante, giornalista e attivo collaboratore di organizzazioni che operano nel settore della pace, della solidarietà e della tutela dell’ambiente. Ha scritto diversi libri dedicati al mare, alla marina e agli eroi. Partecipa al Concorso 50&Più per la quinta volta. Vive a Assisi (Pg).
La conobbi la prima volta in un tardo pomeriggio quasi invernale mentre una fitta pioggia inzuppava uomini e cose. Era ormeggiata ad una banchina del porto militare di La Spezia; l’equipaggio era in gran fermento per via della prossima partenza ed il ponte appariva traboccante di cime, di materiale vario, di derrate deperibili e di bagagli. Mi si presentò in tutta la sua dignità ed eleganza e quando azzardai di “conquistarla”, dopo aver superato lo scalandrone, mi guardò dall’alto in basso, accogliente, ma composta, consapevole della sua “regalità”, del suo indiscusso fascino. Il “vestito” migliore era “imbrogliato” secondo le regole di bordo e quindi gli alberi sembravano spogli, senza vita, pronti però, al momento opportuno a ricevere la sferza del vento e la spinta sulle ampie vele. Il mattino seguente – il sole finalmente era penetrato prepotentemente tra le masse nuvolose in movimento – come per incanto l’affascinante signora del mare, dopo gli ordini del Comandante, trasmessi all’equipaggio con tradizionale fischio del primo Nostromo, mostrò le sue vele al vento e la “Nave più bella del mondo” lasciò il Golfo dei Poeti diretta verso il largo sicura di se tra lo stupore della gente e l’entusiasmo e la malinconia dei marinai rimasti a terra. I giovani nocchieri ancora abbracciati ai pennoni, come se la nave fosse la dolce compagna della vita, fermi sui “marciapiedi” aspettavano che laggiù, sul ponte, fossero impartiti gli ordini: “abbasso da riva”. Erano stanchi, ma orgogliosi per quell’ennesima impresa che durante la crociera, appena iniziata sarebbe stata riproposta quasi tutti i giorni. Sapevano che il loro ruolo era indispensabile e che in fin dei conti erano dei veri e propri protagonisti, degli “attori” di primo piano. La navigazione in quei giorni lontani fu tranquilla, un po’ movimentata, talvolta turbata da sfavorevoli condizioni meteorologiche. Anche in tali frangenti la nave, forte, robusta e sicura, adatta ad affrontare i mari e i venti più impietosi, divenne per l’equipaggio rifugio certo, una sorta di madre protettiva e generosa. In pochi minuti gli agili marinai, coperti con semplici cerate, raggiunsero i pennoni e agganciati i moschettoni di sicurezza imbrogliarono quasi tutte le vele che erano strapazzate dai venti provenienti da più direzioni. Da quel momento il veliero, affidato alla bravura ed all’esperienza del Comandante – i Francesi affermano: “après Dieu le Comandant” – si concesse al mare, non per subirlo, ma per sfidarlo in una lunga battaglia dalla quale sarebbe uscito senz’altro vincitore. Quando l’infuriare dei venti e delle onde si placò la nave, come se nulla fosse accaduto, oppose al maestrale ancora robusto le vele e la “Vespucci” riconquistò la sua superiorità e consapevole del prestigio mai venuto meno, orientata la prua verso l’approdo si appropriò dei grandi spazi blu – celesti. Fu una esperienza travolgente ma il distacco triste. La rincontrai dopo molti anni; Lei non era cambiata, anzi il tempo la aveva resa più attraente. Gli accurati “ritocchi” le avevano garantito “l’eterna giovinezza”. Mi accolse con distaccata amicizia mentre io, sempre innamorato come il primo giorno, feci del tutto per mettermi in vista. Ebbi la gioia di rivivere momenti esaltanti; me li concesse anche se, quel giorno, prima di partire per un lungo viaggio che l’avrebbe portata “dall’altra parte del mondo” mi resi conto con tristezza che non sarei stato più suo ospite, che dall’alto del mio posto preferito e riservato a pochi, la controplancia, non l’avrei più posseduta, amata, non mi sarei più sentito parte di Lei, della sua Forza, della sua “antica” bellezza, che ci saremmo lasciati, per continuare ad amarci da lontano, a vivere di ricordi, di sogni e di passioni che non tramontano. La salutai per l’ultima volta quando in gran silenzio ed al buio, passate le ventitré, lascio il porto di fronte a pochi e casuali “spettatori” e qualche fedele amico. Quasi non mi accorsi che si stava apprestando a lasciarmi. A bordo non una luce, qua e là come lucciole alla fine della primavera solo qualche torcia elettrica del personale di coperta. Pochi gli ordini dal posto di comando. Gli alberi, padroni del vento, quella sera totalmente al buio e inattivi, appena schiariti dalla luce del porto e dei rimorchiatori, sembravano tristi e inutili. Il veliero si staccò dalla banchina lentamente come se non avesse voluto disturbare e la “gran signora” lasciò Livorno in punta di piedi. Quella immagine a dentro di me, fa parte ormai del mio vissuto.