Antonio Zambelli.
Ex impiegato ora in pensione. Appassionato di montagna e di letture. E’ stato finalista al Concorso Letterario “Bukowsky” nel 2016 con un racconto. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Trento.
Il telefono sta squillando e subito penso: “Chi mai può essere a quest’ora?”. La domanda è fuori luogo, perché di solito a quest’ora, o un po’ prima o un po’ dopo, è Marta che mi chiama. Lo fa per sentire come sto, per invitarmi a bere un caffè o solo, anche, per rompermi amichevolmente le scatole.
“Uffa, che tempo!”, esordisce, “e che freddo! Sono stufa di accendere la stufa… ah ah”, e ride per la battuta.
“Non puoi pretendere che il cielo sia sempre limpido”, ribatto io, “e poi non è più così freddo… al pomeriggio arriva a venti gradi!”.
“Sì, ma stamattina erano solo quattro!…”.
Poi smette di lamentarsi e mi chiede di passare a prenderla per andare da qualche parte. Le avevo promesso di portarla a una malga dove lei non è mai stata e così, subito dopo pranzo, partiamo.
Lasciata l’auto dove finisce l’asfalto, ci inoltriamo per una stradina sterrata. Sotto i larici spuntano pallidi e sparsi gli ellebori. Più avanti, invece, compaiono gli anemoni e tantissimi bucaneve. Faccio sfoggio delle mie poche conoscenze botaniche, spiegandole la differenza tra il vero e il falso bucaneve. Marta mi ascolta, ma ad un certo punto si blocca e si mette ad osservare la radura che si è aperta sulla nostra sinistra. Ama dipingere e guarda sempre il paesaggio con occhi da artista. Siamo sopra i mille metri di quota e io, a parte i fiori, vedo solo erba secca e alberi spogli. Lei, invece, nota variazioni di grigio che io non colgo e devo fare uno sforzo per capire su cosa si fissi il suo sguardo.
“Vedi là”, mi dice, “sembra quasi bianco. E là, quelle fasce di grigio scuro alternate ad altre più chiare…”. Già sta pensando a come riprodurle sulla tela.
Spesso è attratta dagli specchi d’acqua con canneti e cespugli attorno, i tipici paesaggi di palude. Io, invece, tendo a guardare in alto, verso le cime e gli alti orizzonti. Per questo, quando arriviamo agli estesi prati della malga, lei mi sorprende non poco, dicendo: “Quelle montagne … che belle!”.
Oltre la valle spiccano le Tre Cime del Bondone e, visto che sono velate da un po’ di foschia, mi chiedo cosa la abbia colpita di loro. “Forse l’insieme”, mi rispondo, “la forma slanciata del Cornetto, quella più rocciosa del Dos d’Abramo e quella più defilata della Cima Verde”, ma tutto questo è ciò che attrae me, non lei! Chissà con quali occhi le ha viste. Non glielo chiedo e la risposta magari la troverò più avanti, se e quando di quella sua immagine ne farà un quadro.
Ci sediamo sulle panche e condividiamo quel poco che abbiamo portato, lei due arance e io dei biscotti. C’è un cartello sul muro della malga con scritto: “Si prega di riportare dentro i vassoi”. Già da molti anni, qui non vi sale bestiame all’alpeggio e la struttura è stata trasformata in meta estiva per pranzi e feste.
“Bello questo posto”, dice, “ci dobbiamo tornare con gli altri amici, noi donne a piedi e voi uomini in rampichino”. Le ricordo che anche Rita va spesso in bici, mentre io, ad esempio, preferisco camminare. “Potremmo farci da mangiare qui e poi, dopo pranzo, magari organizziamo un dibattito”.
Una volta avevo proposto di discutere se era più importante amare o essere amati, dando per scontato che l’ideale erano le due cose insieme. Avevo cercato di rendere l’argomento accattivante, dicendo come capiti spesso che, in una coppia, ciascuno ami l’altro con intensità differente e che a volte l’amore è persino unilaterale. Proprio Marta obiettò che era difficile valutare, perché abbiamo modi diversi di manifestare i sentimenti. L’argomento non era passato e ne era stato preferito un altro che non ricordo.
Marta lancia sempre tante proposte che meriterebbero di venir accolte, ma è difficile accordarsi anche tra poche persone. Separatamente e in più occasioni, ho portato da queste parti vari componenti del gruppo, ma mai tutti insieme.
Una volta la minaccia di un temporale ci fece rientrare in fretta, arrivando appena in tempo all’auto. Poco dopo, lungo la strada, alla pioggia si aggiunse la grandine. Piccole e opache palline di ghiaccio rimbalzavano sull’asfalto e lo coprivano velocemente. Io sentivo di avere la guida sotto controllo e proseguivo, guardando affascinato l’insolito spettacolo. Qualcuno mi riportò alla realtà, dicendo: “E’ meglio fermarsi!”. Cera poca visibilità e l’auto rischiava di scivolare. Accostai con prudenza in prossimità di un tornante. Il temporale durò pochi minuti e presto riprendemmo il viaggio.
Oggi, invece, il tempo è stabile e possiamo prendercela con calma. Nel ritorno ci fermiamo anche alla prima malga più in basso che è aperta come punto di ristoro. Mangiamo un dolce, beviamo qualcosa e poi rientriamo. Scendendo a valle guardiamo la montagna di fronte, dove, un paio di anni fa, eravamo andati da soli. Quella volta, Marta mi aveva chiesto di camminare senza parlare fino a che non avremmo raggiunto la zona dei prati. Il farlo non mi costò nessuna fatica, perché anch’io amo il silenzio. Il suo scopo però era diverso dal mio; lei voleva assaporare senza rumori i profumi e le voci del bosco. Dopo, quando le dissi che in circa un’ora potevamo arrivare al rifugio, mi rispose di no: per quel giorno non aveva più posto dentro di sé per altre emozioni!
Il rientro, per colpa mia, non andò come sarebbe dovuto. Ispirato da una linea di puntini sulla carta topografica, mi ostinai a cercare un sentiero senza trovarlo. Camminammo parecchio su terreno malagevole, arrivando infine alla strada, ma molto più a valle del previsto. Marta era stanca e non si lamentava neanche più; mi aspettò lì su una curva, mentre io risalii al parcheggio a prendere l’auto.
La cosa strana fu che, a distanza di tempo, quando rievocava quell’uscita, ne aumentava di tanto le ore di cammino. Credo che, a dilatarne la durata nel suo ricordo, sia stato il disagio con cui aveva vissuto il percorso imprevisto. Quel giorno, con mia sorpresa, ancor prima di giungere a casa, mi disse: “Verrò ancora in montagna con te!”.
In me, però, rimase lo stesso la sensazione che quell’errore non me lo avrebbe mai perdonato!