Gabriella Zagaglia.
Maturità artistica, laurea in Riabilitazione e Psicomotricità, Master in Management Sanitario. Ama dipingere e scrivere ed ha conseguito riconoscimenti e premi in concorsi nazionali. Partecipa al concorso 50&più da diversi anni; nel 2017 vince la Farfalla d’oro per la poesia e riceve la Menzione speciale della giuria per la prosa, nel 2018 vince la Farfalla d’oro per la prosa e la Superfarfalla per la poesia, nel 2019 è Libellula d’oro per la prosa e Superfarfalla sempre per la prosa. Vive a Pollenza (Mc).
Olga sapeva che la sua vita sarebbe cambiata per sempre. Ci sono scelte, a volte, che non dipendono dalla volontà delle persone e che ci travolgono inesorabilmente come un fiume in piena trascinandoci verso una foce ignota: questa era una di quelle. Non si parlava d’altro in giro “Guerra”: termine breve e conciso emesso in un pugno di fiato. Eppure, ogni volta che veniva sibilato, incuteva terrore. Per giorni, la ragazza era vissuta in uno stato d’allucinazione, immersa nella frenesia dello sgomento. Ogni notte si scivolava nell’oblio più profondo e si veniva “ripescati” all’alba, quando il sibilo delle bombe si attenuava e il giorno rivelava le atrocità compiute nell’arco di quella parentesi di oscurità. I corpi esangui venivano ammassati in fosse comuni e non c’era neppure il tempo di dire una preghiera. Ora, da qui, tra le accoglienti pareti bianche che lasciavano filtrare il profumo intenso del gelsomino dal giardino sottostante, quell’inferno sembrava solo un brutto film. La casa sapeva di buono, come quella dei suoi genitori prima dell’orrore che li aveva inghiottiti. La sera l’odore si faceva più intenso, avvolgendo Olga in un abbraccio inebriante. Come poteva la sua mente, rielaborare così velocemente quella variazione olfattiva? Aveva lasciato il suo paese di fretta, nella convulsione di una fuga improvvisata, stipata nel sudore di anime stordite, con il fiato ansimante dei vecchi, con i pianti strazianti dei bambini e le nenie incessanti delle mamme che tentavano di smorzarli, in un vecchio autobus cigolante. “Ecco”, pensò Olga sotto le lenzuola fiorate di morbido cotone, “questa è la pace, questa è la vita”. Gli odori del fumo misto al sangue e all’adrenalina, lentamente scivolavano in un angolo remoto del suo archivio sensoriale, lasciando il posto all’esuberante gelsomino. Qualcuno bussò delicatamente alla sua porta: “Olga, sei sveglia? Enzo avrebbe bisogno di essere alzato e accudito, se puoi”. Era la signora Maria, la proprietaria della casa che aveva accolto la ragazza in famiglia. “Eccomi signora!”, farfugliò Olga ancora impastata di sonno. Il sig. Marinelli era un povero essere annichilito in una postura “ad uovo”. I ripetuti attacchi ischemici degli ultimi tempi, lo avevano fortemente provato e, della sua figura snella e dritta, era rimasto ben poco. Ogni sera le due donne si sedevano una di fronte all’altra con un bicchierino di “limoncello” in mano. “Vedi, cara ragazza, qui il tempo si è fermato”. Questa era sempre la frase di apertura della signora Maria, ogni volta la stessa. Seguivano poi una lunga lista di ricordi, dai tempi del loro fidanzamento a quelli dei numerosi viaggi in giro per il mondo. Olga si stava adattando troppo in fretta a quelle nuove abitudini. “Desiderare fortemente può, a volte, plasmare la realtà a nostro piacimento”, pensava spesso la ragazza, ma non sapeva quanto questo potesse far male. Daria, la figlia della coppia, era impegnata fino al midollo in un progetto di fisica quantistica all’Università di Cambridge, nel Regno Unito e solo raramente riusciva a tornare a casa. Capitava, a volte, che la signora Maria chiamasse Olga con il nome di sua figlia. Inizialmente, quando questo accadeva, la ragazza si apprestava a correggere la donna, ma con il passare del tempo la giovane rispondeva con naturalezza al nome di “Daria”. “In fondo”, pensava, “cosa c’è di male? Potrei avere la sua stessa età! E poi alla signora Maria fa piacere così”. La sera, a cena, si commentavano le vicende del giorno. Il signor Marinelli era già in camera sua, accudito come un neonato. Olga svolgeva più mansioni, supportata da Elvira, la storica collaboratrice domestica di famiglia. Prima che iniziasse la guerra nel suo paese, la ragazza frequentava l’ultimo anno di facoltà in “Scienze Infermieristiche” ed era a pochi mesi dalla Laurea. Come un’alta marea, i tristi accadimenti avevano stravolto ogni cosa e mutato il corso degli eventi di tutto un popolo. Olga era “l’essenza” del suo popolo. Quando i notiziari echeggiavano dolorosi nell’aria ed entravano negli occhi e nel cuore di tutti, la ragazza si allontanava velocemente per rifugiarsi nella sua stanza. Era il suo nuovo “nido” e mai, mai, lo avrebbe ceduto ad alcuno. Li non arrivavano missili, mine, o aerei minacciosi e rombanti. Non c’era fumo tra le pareti, né l’odore acre della paura e del sudore della gente accatastata sui materassi di fortuna. Da quel luogo non si doveva fuggire di fretta. Esso aveva tutte le caratteristiche di un nido dorato: confortevole e sicuro. I giorni passavano e maggio prometteva una buona estate, preparando i sensi alla calura più intensa. Le foto di Daria erano sparse un po’ ovunque sui ripiani dei mobili ed Olga leggeva in quei tratti del volto e del corpo, qualcosa di familiare. In un mattino tiepido, in cui l’odore del pane sfornato all’angolo dispensava carezze per il palato, il campanello dell’ingresso suonò vivacemente per due volte di seguito. La signora Maria alzò la cornetta e dando uno sguardo al video citofono esclamò: “Giorgio, che piacere! Accomodati pure”. Giorgio era il fidanzato (inconsolabile) di Daria che tornava saltuariamente per avere notizie della sua amata lontana. Fu Olga ad aprire la porta, dietro esortazione della padrona di casa. Il ragazzo si accomodò timidamente sul divano di pelle chiaro ed accavallò le lunghe gambe magre e dinoccolate davanti ai suoi ospiti. Aveva le mani ossute e nervose che, alla vista del volto nuovo di Olga iniziarono ad intrecciarsi ritmicamente davanti al petto. Giorgio era un bravo ragazzo che stava conseguendo una specialistica in medicina sportiva. Il fatto che la sua fidanzata fosse lontana e forse, neanche si ritenesse essere ancora tale per lui, non limitavano la speranza né l’assidua presenza del giovane medico in casa “Marinelli”. Gli occhi dei due giovani si incrociarono per un attimo: quelli di lei chiari come l’acqua piovana e quelli di lui, scuri come uno stagno al tramonto. Seguirono molte altre visite da parte di Giorgio ed Elvira si prodigava nel realizzare nuovi pasticcini da tè. La salute del signor Enzo andava inesorabilmente peggiorando e Olga aveva un gran da fare con la preoccupante piaga da decubito formatasi a livello sacrale che richiedeva enorme cura e igiene quotidiana. L’uomo andava ribaltato ogni tre ore, per evitare la pressione prolungata sulle sporgenze ossee, poi imboccato, lavato e mobilizzato passivamente. Lei faceva tutto con grande competenza e solerzia, trattando il povero malato come fosse il suo stesso padre. Giorgio sapeva dell’impegno della ragazza nella casa e aspettava pazientemente che lei scendesse e si unisse agli altri per il rituale del tè. Si parlava di tutto, evitando cautamente i fatti dolorosi: la guerra e Daria. Ognuno dei due giovani aveva la propria spina nel cuore, entrambi lottavano con i propri ricordi. Il quartetto del salotto pomeridiano, composto da tre donne ed un giovane medico, stava diventando una vera e propria abitudine in casa Marinelli. Olga aveva ripreso a studiare, ma la sua testa era confusa e la sua pelle emetteva strane vibrazioni al pensiero di Giorgio. Che cosa le stava accadendo? Non aveva quasi più il controllo dei suoi muscoli che cedevano improvvisamente per poi rinvigorirsi come ninfee emerse dall’acqua del lago. La sua pelle reclamava carezze. Nella forza dei suoi 25 anni, si tendeva all’arco della vita e lo faceva ogni momento del giorno, ogni notte. Qualcosa stava entrando in quella casa con la prepotenza della primavera che dilaga, senza chiedere scusa al mondo: l’Amore. Il pensiero della bocca di lui investiva Olga di una passione dilaniante, ma, al tempo stesso, la paura di cadere in quel vortice la terrorizzava. Come avrebbero reagito gli altri? Che diritto aveva lei di prendere qualcosa di “non suo” in quella casa? Era stata troppo tempo nel nido dorato di Daria con i suoi genitori, nella sua camera, con le sue cose, ma lei era soltanto “Olga” una profuga accolta per compassionevole carità cristiana. Il gelsomino emanò un’onda dolce ed intensa dal giardino che, alla ragazza, suonò come un commiato. Presa da un’incontenibile frenesia di fuga, riversò due parole confuse di scuse e ringraziamenti su un foglio bianco poi, mise le poche cose che aveva nel suo piccolo trolley e sgattaiolò giù per le scale, verso il portone d’ingresso. La notte aveva il sapore aspro del nulla, come l’orizzonte dentro il suo cuore e la stava inghiottendo inesorabilmente. Era di nuovo in fuga e sola, disperatamente sola. L’indomani, un vecchio capostazione la trovò raggomitolata su una panchina della sala d’aspetto, le dette una benevola occhiata e le offrì un cappuccino cremoso con una brioche alla marmellata d’arancia. Olga riassunse in breve la sua storia al suo buon samaritano che, con l’espressione di chi conosce le pene del mondo, la ospitò in casa sua dove viveva con la moglie ed un cane. Nei piccoli paesi ci si conosce tutti e i fatti corrono di bocca in bocca prima ancora di avverarsi. Dopo qualche giorno, la signora Maria si presentò sull’uscio del capostazione lasciando una lettera per Olga. Quando l’ebbe tra le dita, la ragazza si tuffò in quelle parole come un pesce smarrito nell’oceano: “Cara Olga, da quando te ne sei andata, la nostra vita è stata stravolta. Mio marito è morto pronunciando il tuo nome e, come tu ben sai, non parlava da anni. Mia figlia Daria è tornata di corsa a casa per i funerali di suo padre ed ha portato con sé Thomas, il suo futuro marito. Sono poi ripartiti in fretta dopo la cerimonia funebre. Elvira continua a pulire freneticamente i vetri delle finestre per sbirciare fuori, sperando di vederti arrivare. Io non so più con chi fare due chiacchiere davanti a un “limoncello”, per non parlare del rituale del tè che è stato tacitamente abolito in questa casa. Non ho ben capito il senso delle tue parole che parlavano di perdono e riconoscenza. Una cosa però è certa: te ne sei andata lasciando un vuoto incolmabile in tutti noi. Vorrei che tu sapessi che sei una figlia per me e, come una madre, vorrei tu facessi tesoro dei miei consigli. Ogni fuga, ragazza mia, contempla un ritorno. I luoghi dove viviamo si impregnano di noi, abbandonarli per sempre significherebbe privarsi di frammenti di cuore e rischiare di invecchiare senza di esso. Devi tornare Olga, ovunque ci sia una tua traccia. Devi ritrovare le tue radici ed emetterne nuove qui, nella casa che ti ha visto piangere la notte tra le lenzuola e gioire per le piccole cose negatoti dalla guerra. Qui c’è qualcosa di irrisolto che aleggia nell’aria e che ti reclama! A presto, Maria”. La ragazza era già in strada. Il pensiero di invecchiare con il cuore smembrato la inquietava. Doveva recuperarne un grosso frammento di nome Giorgio, con le gambe dinoccolate, le mani ossute e nervose e gli occhi color stagno al tramonto. Quando avvertì il profumo inebriante del gelsomino, comprese di essere a casa.