Gabriella Zagaglia. Si diploma in maturità artistica a 18 anni e in seguito si laurea in fisioterapia specializzandosi poi in psicomotricità e arteterapia a Parigi con il massimo dei voti. Consegue importanti premi: primo premio Confcommercio “Marguttiana” 2009 e nel 2011 come “artista designata” alla realizzazione “Manifesto città di Macerata” e nel 2012 primo premio giuria popolare. Partecipa al Concorso 50&Più da alcuni anni; nel 2017 vince la Farfalla d’oro per la poesia e riceve la Menzione speciale della giuria per la prosa, nel 2018 vince la Farfalla d’oro per la prosa e la Superfarfalla per la poesia, nel 2019 è Libellula d’oro per la prosa e Superfarfalla sempre per la prosa. Vive a Pollenza (Mc).
Quando l’estate rilascia gli ultimi sguardi obliqui, ed il sole ti scalda fino alla metà del giorno, facendo intravedere la fresca aria autunnale dopo il tramonto, è già settembre. Le piccole città di provincia sono molto sensibili ai capricci di questo mese che, spesso, coincidono con grosse ricorrenze dal gusto spiccatamente popolare, come il Santo patrono o la celebrazione di un rione. La pelle indossa ancora il colore dorato del sole di agosto, e gli abiti leggeri le rimangono nostalgicamente incollati , nonostante l’umidità impietosa della sera. Macerata è una Signora volubile, ma al tempo stesso, molto attaccata alle sue tradizioni. In questo periodo di transizione stagionale, è facile incontrare studenti universitari con familiari che girano curiosando intorno alle case, in cerca dei cartelli “affittasi”, così com’è facile imbattersi in giovani ragazzi di colore chiassosi e allegri, per le strade. Come tante contrade, i quartieri si articolano lungo vie e palazzi, inglobando tutto ciò che l’occhio può scrutare. Ogni angolo è un piccolo capolavoro. C’è un anima in ogni spazio, strutturato o vuoto. Ed è sempre lo stesso, da anni. Chi è nato, o comunque cresciuto qui, come nel mio caso, ha memorie incastonate in ogni muro, in ogni albero, in ogni vetrina o portone. A volte, nel silenzio, sembra di udire il rimbalzo dei palloni calciati con la foga degli anni verdi, e le risate sguainate di noi ragazzi accampati di fronte ai bar, o sui gradini esterni delle chiese. Le panchine spettegolano ancora sui primi baci maldestri e sulle carezze rubate, di noi giovani avventori, nonostante le molteplici mani di vernice che le ricoprono. Ecco, questo è il mio vecchio quartiere del Borgo, noto come “le casette”, per via delle piccole case allineate e addossate le une alle altre. Naturalmente, i suoi abitanti, oggi come allora sono i “casettà”. All’angolo però, quello che delimita la via con la traversa della chiesa del “Sacro Cuore”, non c’è più il mitico barbiere a sbirciare le passanti, tra una sforbiciata e una spennellata di barba di qualche noto cliente. Al suo posto, soltanto un anonimo negozio di bomboniere e confetti industriali. Anche il farmacista, soprannominato “L’ebreo”, è stato sostituito da un personaggio anonimo che ha rilevato la sua attività. E che dire di “Brenna” il macellaio, e della sua enorme pannella bianca insanguinata, sempre sorridente sull’uscio? O del pizzicagnolo “Sacchio”, con i suoi mitici panini al prosciutto e carciofini? Altri tempi, altre cose, altri soggetti, ma gli spazi, quelli sono ancora impregnati di storie. Dal mio “88”, un portoncino ora perfettamente restaurato, si dipanava tutta la mia vita. A sinistra, nel pomeriggio, prendevo per la parallela : via “Severini”, luogo di ritrovo per scorribande e nuovi amoreggiamenti adolescenziali. A destra, al mattino, prendevo la direzione verso il “Duomo”, adiacente alla mia scuola media “Istituto Enrico Fermi” (anche questo non è più lì). Non sono nata in questa città, ci sono approdata all’età di 10 anni, ma ci ho passato la turbolenta stagione dell’adolescenza e il fulgore della gioventù. Tutto, per i miei occhi, aveva il sapore di straordinario e affascinante, allora. La mia infanzia vissuta in collegio, mi aveva precluso l’idea di “spazio aperto”, e mi sentivo come una giovane aquila alle sue prime prove di volo. Anche andare da sola a scuola, era una sorta di iniziazione e di prova da superare ogni giorno. Ero stata inserita nella sezione “I”, quella più scomoda per gli insegnanti. L’ultima in organizzazione, l’ultima in considerazione, l’ultima in ogni cosa. Nonostante il Preside avesse assemblato ragazzi con problematiche svariate, dalla provenienza all’estrazione sociale, io mi trovavo bene. Le prime lettere, A, B, C, erano destinate ai bambini considerati “in gamba”. In teoria erano figli di insegnanti, medici, avvocati o ricchi commercianti. Dalla D alla H, c’erano bambini non particolarmente riconducibili ad una categoria sociale, ma comunque, benestanti e con un quoziente intellettivo nella media. E poi, c’era la scomoda sezione “I”. In questa sorta di girone dantesco, confluivano orfani o figli di miserabili. In qualche modo, noi di quella classe definita “speciale”, avevamo una specie di marchio che ci faceva apparire diversi dagli altri ragazzi. I punti di vista sono sempre soggettivi e relativi. Personalmente, avevo gradito l’essere stata inserita tra ragazzi “diversi” che, con la loro non conformità al modello di “ragazzo normale”, erano molto più simili a me. I “Diversi”, per me, erano quella specie di marionette profumate e ordinate con l’aria sufficiente e le scarpe di coppale lucido. “Loro” con quei grembiulini freschi di stiratura e il fiocco perfettamente teso e simmetrico. Le femmine avevano scritto in faccia i “buongiorno” sciorinati generosamente agli insegnanti, ed emanavano lavanda e sapone di Marsiglia ad ogni gesto. I maschi avevano l’aria seria, crucciata, e i capelli perfettamente rasati sopra la nuca. Tutti, indistintamente, erano distanti, inesorabilmente distanti dalla sezione “I” e, probabilmente, lo sono stati per tutta la loro vita. I ragazzi della sezione speciale, avevano sempre le ginocchia “sbucciate” e luride. Spesso, nascondevano nelle tasche dei pantaloni, uno specchietto per guardare sotto le nostre gonne. Ragazzacci! Eppure, nonostante il loro gergo scurrile, le loro perfide abitudini e il loro profumo poco gradevole, non li avrei mai cambiati con gli altri. La timidezza e la riservatezza di noi femmine, riuscivano a renderli docili e disarmati. Di solito, nel grande cortile comune a tutte le sezioni, ci proteggevano dai più grandi, e si innamoravano. Eh si, come si innamoravano! C’erano sempre bigliettini stropicciati nascosti tra i nostri libri, in un inglese embrionale che ci faceva tanto ridere. Poi, c’erano loro: i “Professori”. Di consuetudine, un adulto in cattedra squadrava i suoi giovani allievi dall’alto in basso. Gli allievi, dal loro piccolo banco, squadravano gli adulti dal basso verso l’alto. Un po’ per timore, un po’ per rispetto, i ragazzi scoprivano il loro insegnante, partendo dalle scarpe. Incrociare lo sguardo con le calzature di un insegnante, era certamente meno impegnativo dell’incrociare i suoi occhi e, sicuramente, altamente istruttivo. La nostra insegnante d’inglese, era guizzante ed esplosiva come il suo nome : Fiammetta. Indossava scarpe con tacco a spillo che annunciavano il suo arrivo “schioppettante”, e il suo “Good morning!”. I suoi piedi danzavano sotto la cattedra, rimarcando il suo accento anglosassone come una sorta di accompagnamento musicale. La ragazza era gradevole, con i suoi occhi vispi e la sua chioma rossa. La nostra Prof. Di matematica invece, la “Maroni”, aveva scarpe truci, come i suoi occhi. La odiavo, e con lei tutti i numeri e quelle dannatissime “espressioni” che mai, mai sono riuscita a comprendere. Le sue scarpe resteranno sempre un mistero per me, come la scienza che rappresentava . I nostri occhi non si sono mai incrociati, ma dei suoi, ne ho portato il peso inesorabile e greve per tutti questi anni. Poi, una figura eterea, inconsistente, come vapore acqueo: il prof. Di italiano. Un uomo minuto, d’età indefinibile. Sembrava un vecchio ragazzo, con le spalle curve e il riporto intorno alla testa. Si chiamava Giulio Spadaro, celibe. In quel contesto definito “speciale”, come la sezione “I”, lui era il più “speciale “ di tutti noi. Ora che ripercorro la via del borgo, mi si spalancano memorie come finestre, e mi rivedo con passo affrettato verso la scuola. Avevo un compito da svolgere prima che suonasse la campanella, anzi, due. “Mi raccomando” diceva al finir della lezione, ogni giorno, Spadaro:“domani, ognuno deve portare un quotidiano in classe e osservare un soggetto per il bozzetto”. Il giornale andava acquistato regolarmente dal giornalaio e, regolarmente, andava lasciato al professore che ne accumulava a decine. “Il bozzetto” era il nostro compito in classe giornaliero. Si trattava di osservare minuziosamente un personaggio, uno qualsiasi sul nostro percorso mattutino, e farlo attore del nostro tema. Nel giro di tre anni, avevo accumulato una consistente collezione di ritratti fatti di parole. Ho amato quei personaggi, i loro lineamenti, le loro caratteristiche, e ringrazio il prof. Per questo. Ognuno di noi doveva leggere e commentare un articolo del giornale che aveva portato, poi, Spadaro faceva abilmente sparire tutti i nostri quotidiani dentro la giacca a scacchi beige (sempre la stessa, in ogni stagione). Quell’uomo era una leggenda. Malato di una forma incurabile di avarizia, viveva con dieci lire di latte e mozzarelle ammuffite, nonostante si dicesse di lui che aveva accumulato una fortuna. I negozianti gli lasciavano da parte la merce scaduta che l’uomo, con grande avidità, divorava. Anche la mia merenda rientrava nel “circolo” dei suoi consumi, al punto tale che mia madre, rassegnata, ne preparava sempre due. Il suo cammino ondeggiante, era dovuto al timore di consumare i tacchi delle scarpe, per cui appoggiava soltanto le punte, “basculando” in avanti come un’onda. I giornali lo riparavano dal freddo e li utilizzava in diversi modi. Quando poi ne accumulava un numero eccessivo, li portava al macero e ne ricavava degli utili. Il mercoledì, giorno di mercato a Macerata, il professore affittava il suo bagno alle contadine di passaggio e, spesso, fermo sulla soglia della sua casa in piazza, le abbordava per offrire loro il servizio toilette (a pagamento). Ecco, oggi torno in questi luoghi in veste di artista di strada, per la festa delle “casette”, e respiro il mio passato che mi attende, benevolo, ogni anno. L’ultima volta, circondata dai miei compagni di pittura e dalle mie opere in mostra appese ad una parete, gettai uno sguardo distratto su un vecchio “ondeggiante” che svicolava incuriosito tra i nostri quadri. In quelle movenze e in quella postura, c’èra qualcosa di familiare e di noto. “Ma no, Cosa vado a pensare!” Dissi fra me, “sono passati oltre quarant’anni!” Il piccolo uomo accartocciato si fermò un attimo e mi scrutò attentamente, poi, si sedette sul muretto vicino alla mia parete allestita. Aveva una specie di riporto rado intorno alla testa, ed indossava una giacca consumata a scacchi beige. Dalla mostrina di destra si intravedeva un quotidiano pressato. “Professor Spadaro!”, esclamai commossa. Ci guardammo per un attimo, ma il suo sguardo era perso nel vuoto. Una lacrima non trattenuta mi attraversò metà viso. Pensai al destino, alle sue parallele, ai suoi inganni. Rivedere una persona così importante per la mia adolescenza, , in un devastante stato di confusione, era davvero un brutto scherzo. Rimanemmo per un po’ seduti sul muretto, uno di fianco all’altro, come due perfetti estranei. La gente passava e ammirava le tele, poi ,con indifferenza, si allontanava. Anche Spadaro gettò uno sguardo sulle mie opere, e si soffermò a lungo sulla mia firma. La sua faccia aveva tatuato un sorriso senza denti, che gli conferiva un’aria perduta. Le sue mani ossute, continuavano ripetutamente a sfregarsi tra loro come un tempo, ma la pelle ormai, era soltanto un velo dal quale trasparivano vene e capillari arsi. Provai tenerezza, e gliele presi tra le mie. Fu allora che il suo sguardo si accese e, con voce sommessa, mi sussurrò su un orecchio “vedo che hai fatto i bozzetti, ma la merenda e il giornale, li hai portati?” . Ecco, questo accade a chi ritorna sui luoghi del passato! Cosa avrei dovuto aspettarmi dal rione delle “casette?”. Ci sono ancora dentro, e forse, non me ne sono mai allontanata completamente. Qui, ho imparato che nella vita le sezioni “I” sono le migliori, quelle dove germogliano i semi della diversità, quelli “Speciali”. E allora, dove altro potrei tornare?