«Cara signora Ravera, lei parla sempre di quanto è difficile invecchiare per le donne. E a noi uomini ci considera dei privilegiati, perché nessuno ci chiede di essere belli e giovani per sempre, come viene chiesto a voi, fino agli anni dei capelli grigi. L’ho letto in una intervista a lei, non mi ricordo più su quale giornale. Ma le chiedo: ci pensa mai al momento in cui noi uomini, gli uomini come me, devono smettere di lavorare? Gli anni della pensione sono terribili. Ti senti inutile, ti alzi dal letto presto, al mattino, come sei abituato a fare da 50 anni ed esci di casa, perché chiuso in casa non ti va di stare. Esci, ma non sai dove andare». La lettera è lunga e avrebbe meritato una pubblicazione integrale, il signor Luigi è stato, per tutta la vita attiva, impiegato nel ramo alberghiero, con una posizione di responsabilità, ha amato il suo lavoro ed è stato apprezzato per la qualità del suo impegno. Gli scatti di carriera l’hanno gratificato, l’affermarsi del Grande Albergo cui ha dedicato tutte le sue energie gli ha dato un senso di appagamento. «Da due anni – ha scritto – vedo tutto nero».
Due anni fa è andato in pensione. Quella pensione per la quale sono scesi in lotta i francesi, quella pensione che nessuno vorrebbe mai innalzare d’età, nonostante l’allungamento costante dell’aspettativa di vita. Quella pensione, per Luigi e per tanti altri come lui, può provocare episodi, più o meno gravi, di depressione.
Io lo capisco Luigi. Adesso. Quando, tanti anni fa, andai a trovare mio padre in clinica, e mi dissero che era stato ricoverato per certi controlli a seguito di un crollo nervoso, non capii. Ero tra i venti e i trenta. Non potevo capire.
Mio padre era ingegnere, aveva appena compiuto 60 anni, e stava per diventare nonno (io ero incinta di un pupo che ormai ha 44 anni), era smilzo, sano, spiritoso, intelligente. All’epoca il ritiro dal lavoro scattava a 60 anni. Perché tutta quella disperazione? Ricordo che gli dissi: avrai finalmente tempo per te. Ma lui non lo voleva, il tempo per sé.
E ce n’è tanti come lui. Anche oggi. Anche se ci sono, oggi, infinite alternative per intrattenersi, milioni di film, di serie, di app per giocare a carte, o a qualsiasi altro gioco anche da soli.
Tuttavia: l’immagine del pomeriggio del vecchio, seduto sulla panchina, senza neanche più il giornale perché le notizie dal mondo mettono paura, sconforta i più. E allora: non si potrebbe, dai 65/67 anni in su, andare in pensione su base volontaria? Togliamo posti ai giovani? No, se si creano nuove opportunità.
Avremo, grazie ai prodigi della tecnologia, sempre più tempo libero: la settimana lavorativa, già oggi, potrebbe durare quattro giorni, almeno in certi settori. L’industria del Tempo Libero diventerà sempre più centrale. È una filiera che potrebbe far fiorire migliaia di nuove mansioni. Bisogna semplificare la burocrazia e aiutare i giovani a nutrire il settore del lavoro creativo. Audiovisivo, spettacolo dal vivo, ristorazione, turismo. Una società sana è una società dove c’è posto per tutti e tutti possono portare il loro contributo.
Invece, continuiamo a sprecare l’intelligenza dei giovani e a rottamare l’intelligenza dei vecchi.
Un uomo di esperienza, lucido, competente, una donna capace, brillante, colta… perché devono essere espulsi dalla vita attiva? Perché un professore universitario deve essere costretto a lasciare il suo posto di lavoro allo scadere del settantesimo anno d’età? Negli Stati Uniti, ogni anno, i docenti vengono sottoposti al giudizio degli studenti; finché i loro allievi li reputano capaci, amabili, efficaci, continuano a insegnare.
Possono andare avanti fino a 90 anni, “se je regge la pompa”, come dicono a Roma. Naturalmente ci sono i lavori usuranti, quelli noiosi, quelli faticosi, quelli per cui i muscoli sono condizione necessaria. Vanno in pensione presto ballerini e calciatori, toreri e tennisti. Ma gli altri? Non hanno più trent’anni e neanche quaranta ma mica per questo sono da buttare! Vorrei che fosse almeno concepita, la possibilità del ritiro volontario.
Invecchiare è una avventura squisitamente individuale, ai 67 anni si può arrivare bene, benissimo, o male, senza più desideri né passione. Dipende da come sei, da quanto hai investito per continuare a migliorare. Molto? Poco? Niente? Ti sei addormentato sugli allori e hai smesso di sforzarti? Rischi di avere una vecchiaia immobile, rinunciataria. Ma non preoccuparti, c’è sempre tempo per cambiare passo, stile, vita.
Lidia Ravera è nata a Torino. Giornalista, sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato trenta opere di narrativa tra cui “Porci con le ali” (Bompiani 1976), “Sorelle” (Rizzoli 1994), “L’eterna ragazza” (Rizzoli 2006), “La guerra dei figli” (Garzanti 2009) e “A Stromboli” (Laterza 2010). Gli ultimi romanzi “Piangi pure”, “Gli scaduti”, “Il terzo tempo”, “Avanti, parla” sono nel catalogo Bompiani. Ha lavorato per il cinema, il teatro e la televisione.
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