Li hanno chiamati “volontari inattesi”, forse perché siamo abituati a pensare al volontariato “a senso unico”. Lo immaginiamo quasi sempre rivolto in un’unica direzione: da cittadini italiani verso immigrati o verso persone che, comunque, non sono nate nel nostro Paese. La realtà però è un’altra. E molto più complessa.
Ce lo dimostra “Volontari inattesi”, la prima indagine nazionale appena conclusasi sul volontariato svolto da cittadini di origine immigrata. La ricerca promossa da CSVnet, l’Associazione dei Centri di Servizio per il Volontariato, è stata curata dai sociologi Maurizio Ambrosini e Deborah Erminio e realizzata dal Centro Studi Medì con l’aiuto dei Centri di Servizio per il Volontariato.
I risultati del lavoro sono stati quindi raccolti in un volume dal titolo Volontari Inattesi. L’impegno sociale delle persone di origine immigrata. Al di là dei dati e delle esperienze narrate, la ricerca dimostra come il volontariato sia sempre più un “anticipatore” della società inclusiva e fraterna che intende realizzare all’esterno.
L’identikit dei volontari inattesi di origine straniera
Lo studio è stato condotto sulla scorta dei dati raccolti tra il 2018 e il 2019. Sono stati elaborati 658 questionari e più di 100 interviste in 163 città italiane, che hanno coinvolto migranti provenienti da 80 diversi Paesi. Il target individuato è composto da stranieri – inclusi quelli di seconda generazione -, impegnati in forme di volontariato, anche solo episodico, all’interno di associazioni di volontariato italiane.
Ne viene fuori la fotografia di un piccolo esercito di stranieri volontari, composto per lo più da giovani, con un grado elevato di istruzione e di integrazione. Ma soprattutto, ciò che più colpisce è il rovesciamento del luogo comune che vede sempre “gli altri”, gli stranieri, come fruitori di aiuti sociali ed economici. Mentre molti di loro sono impegnati in ruoli di assistenza e partecipazione sociale, attraverso i quali partecipano attivamente all’interno della società civile. Fornendo così un valido contributo, non solo per gli assistiti, ma per lo stesso terzo settore.
Far bene agli altri per far bene a se stessi
Tra le motivazioni principali degli operatori immigrati, figura in primo luogo la capacità “personale” di impegno e di solidarietà verso il prossimo. Segue la volontà di trasmettere all’esterno un’immagine positiva della diversità. A ciò bisogna aggiungere un bisogno di crescita e arricchimento delle proprie capacità, accompagnato dall’esigenza di socialità, molto forte in chi si trova in un ambiente “straniero”. Senza dimenticare che un impegno nel no profit può trasformarsi in una occasione di occupazione. Anche se a volte ciò accade in maniera del tutto inconsapevole.
Infine, uno sguardo rapido alle attività di volontariato svolte sul territorio italiano. Dalla ricerca emergono 4 settori: l’assistenza sociale (come mensa o raccolta del vestiario); le attività culturali (accompagnamento a mostre e visite); il sostegno scolastico; il supporto nello svolgimento di feste e sagre popolari.
Il volontariato tra gli anziani: la storia di Kleber
Tra le diverse esperienze raccontate da coloro che hanno partecipato alla ricerca “Volontari inattesi”, alcune riguardano specificatamente il mondo della terza età. A Milano è attivo da tempo Genti di Pace, un movimento nato all’interno della Comunità di Sant’Egidio, che riunisce persone di nazionalità diverse, impegnate in un percorso di assistenza e di integrazione. Qui l’apertura verso l’anziano è rivolta sia agli stranieri che hanno bisogno di un sostegno, sia agli immigrati che chiedono di essere coinvolti nell’attività di volontariato.
È tra loro che troviamo Kleber. Originario dell’Ecuador, ha 63 anni e vive in Italia da più di 10. La sua decisione di divenire volontario è maturata nell’ambito della Comunità, dove ha frequentato un corso d’italiano gratuito. Laureatosi in agraria nel suo Paese, Kleber ha sempre lavorato molto da quando è qui. Tuttavia, la sua attività nel volontariato risale ai tempi della gioventù, quando ancora viveva in Ecuador.
Da tre anni è impegnato nella residenza per anziani Virginio Ferrari a Milano, una tra le strutture più colpite dal Covid-19.
Il suo compito consiste nell’offrire compagnia agli ospiti, fornendo piccoli aiuti. «Ma la cosa più importante è che abbiamo creato delle amicizie. Ci trasmettiamo affetto reciproco ed è una cosa bellissima perché così ci si sente pieni», ha raccontato ai suoi intervistatori. Durante il lockdown è rimasto vicino ai suoi amici con lettere e telefonate. Occuparsi di loro è un modo per mantenere il rapporto con la sua famiglia di origine: «Nel loro volto – dice Kleber – vedo quello di mio padre e di mia madre che ho perso 5 anni fa. E ogni volta che aiuto un anziano qui, penso che qualcuno nel mio Paese si sta prendendo cura di uno dei miei vecchi».
Marleny, nel volontariato ha trovato il coraggio e la fiducia
Anche Marleny, che ha 65 anni, si occupa di anziani da 9. Anzi, ha scoperto il volontariato proprio prendendosi cura di loro. Appena giunta in Italia, dopo il corso di italiano, trova infatti lavoro come assistente domiciliare tramite la parrocchia.
Ora anche lei, come Kleber, ha degli amici tra i residenti del suo stesso Istituto. Quando era in Perù si occupava già dei più bisognosi tra le famiglie contadine. Qui in Italia prendersi cura degli anziani la aiuta ad acquistare sempre maggior sicurezza in se stessa: «Sono molto riservata, discreta – ha rivelato -. Fare volontariato mi ha portato ad avere più coraggio e fiducia negli altri».
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