Esiste una forma di razzismo legata alle condizioni ambientali in cui vivono alcune comunità, in particolare afroamericane ed ispaniche. L’esposizione ad alcuni rifiuti tossici mina la salute soprattutto dei nuovi nati
Il degrado ambientale come nuova frontiera della questione sociale. Diversi studi dimostrano come l’aumento delle disuguaglianze sociali rafforzi gli squilibri ambientali, i quali a loro volta incrementano le disuguaglianze stesse in un perverso circuito a spirale. Al contrario, politiche di inclusione e di lotta alle disuguaglianze sono una parte fondamentale della sfida per una economia verde.
Le condizioni ambientali hanno un peso notevole nei destini sociali: secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), fattori ambientali “modificabili” spiegano il 24% della morbilità totale (ovvero la frequenza con cui una data malattia si manifesta nella popolazione) e un terzo di quella dei bambini in tutto il mondo.
Queste disuguaglianze “ambientali” sono legate a variabili socio-economiche e molto spesso la causa è da ricercare nell’assenza di una “giustizia distributiva”: i rischi ambientali non sono suddivisi in modo equo. L’ambiente condiziona buona parte della salute degli individui e, di conseguenza – come sostiene il premio Nobel per l’economia, Amartya Sen -, le opportunità sociali di cui possono godere. Perché le condizioni ambientali determinano in particolare il futuro dei bambini. A dimostrarlo è stato lo studio dell’economista dell’Università di Princeton, Janet Currie, pubblicato nel Canadian Journal of Economics. Currie per dieci anni ha esaminato i registri di nascita del New Jersey e i dati sulla qualità dell’acqua potabile, dimostrando come una spirale socio-ambientale viziosa potrebbe ridurre le opportunità sociali dei nascituri, a causa dell’inquinamento ambientale cui sono state esposte le madri durante la gravidanza.
Lo studio dimostra come gli effetti dell’acqua contaminata, che causano numerosi disturbi cognitivi e dello sviluppo, sono particolarmente significativi nei bambini nati da madri con un livello di istruzione inferiore e appartenenti a fasce sociali più deboli. I registri di nascita esaminati contenevano informazioni riguardanti la data di nascita, le caratteristiche materne come educazione, stato civile e nazionalità. Secondo lo studio, “i bambini esposti alla contaminazione di inquinanti nell’utero tendono ad avere madri più giovani, meno istruite e di nazionalità afroamericana o ispanica”. Del resto il concetto di “razzismo ambientale” è stato utilizzato per la prima volta dal leader dei diritti civili afroamericano Benjamin Chavis nel 1982.
Si tratta di una forma di razzismo sistemico per cui le comunità etniche minoritarie sono enormemente soggette a rischi per la salute, poiché vivono in prossimità di fonti di rifiuti tossici come impianti di depurazione, miniere, discariche, centrali elettriche, strade principali. Di conseguenza, queste comunità soffrono di problemi di salute legati agli inquinanti pericolosi: che stiano respirando i fumi delle fabbriche e gli scarichi dei camion nei centri urbani, oppure la polvere delle strade di campagna delle fattorie, le persone di colore sono più esposte a fonti di inquinamento atmosferico, rispetto ai bianchi.
Molti di questi problemi riguardano le comunità a basso reddito nel loro insieme, ma secondo l’accademico Robert Bullard – definito il “padre della giustizia ambientale” -, l’appartenenza a una minoranza è spesso un indicatore più affidabile della vicinanza all’inquinamento. Bullard ha dimostrato, ad esempio che i bambini afroamericani hanno cinque volte più probabilità di avere un avvelenamento da piombo a causa della vicinanza ai rifiuti rispetto ai bambini caucasici.
Tuttavia, gli effetti più drammatici di questa sistematica ingiustizia sociale vengono pagati dalle popolazioni del Sud del mondo, obbligate ad accogliere tonnellate di rifiuti che produciamo ogni giorno e colpite in maniera più drastica dagli effetti del cambiamento climatico e dell’innalzamento delle temperature.
Il razzismo ambientale dimostra ancora una volta il nesso inscindibile tra questioni ambientali e sociali e l’urgenza di definire nuovi approcci per affrontare il problema della discriminazione razziale nell’esposizione all’inquinamento atmosferico.
Francesca Santolini, giornalista scientifica, saggista, divulgatrice ambientale. Collabora con il quotidiano La Stampa, dove scrive di ambiente, clima e sostenibilità e con la trasmissione Unomattina in onda su Rai Uno, dove si occupa di ambiente. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e radiofoniche intervenendo sui temi d’attualità legati all’inquinamento e al clima. Per Marsilio ha scritto “Passio Verde. La sfida ecologista alla politica” (2010), mentre per la casa editrice Rubbettino “Un nuovo clima. Come l’Italia affronta la sfida climatica” (2015) e “Profughi del clima. Chi sono, da dove vengono, dove andranno” (2019).
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