Condividere spazi e servizi della propria abitazione può frenare la corsa dei prezzi di cibo, energia, servizi per la cura della persona e della casa, di affitti e mutui? Lo abbiamo chiesto ad urbanisti, ricercatori e imprese che se ne occupano sotto diversi profili. Abbiamo “scoperto” una scelta di vita attiva e solidale che combatte non solo la povertà economica, ma molto di più…
Vivere in cohousing. Scegliere di condividere ampi spazi comuni, ma anche servizi come pulizie, lavanderia, assistenza domiciliare e sanitaria, sport e tempo libero. Una scelta che indubbiamente batte la solitudine. Ma può anche abbattere l’impennata del costo della vita, degli affitti e dei mutui?
«Partiamo da una precisazione: il cohousing è a tutti gli effetti un abitare privato, non solo perché le singole unità abitative ospitano ciascuna singoli nuclei familiari, ma anche perché il loro prezzo è stimato a libero mercato – sottolinea Matteo Robiglio, professore ordinario di Architettura del Politecnico di Torino e consigliere d’amministrazione di Homers, società benefit che accompagna le persone in progetti di cohousing -. Il vantaggio economico sta nel fatto che, in un cohousing, le unità abitative possono essere più piccole grazie a spazi comuni più grandi. Non solo, quindi, il vano scala e l’ascensore, ma anche una sala feste, un’area fitness e wellness, un alloggio per la badante o per gli ospiti. Oppure l’area di lavoro: se in casa una stanza dedicata al lavoro deve essere per legge almeno di 9 metri quadri, in un open space condiviso da 10 persone non ho bisogno nel complesso di 90 metri quadri, me ne bastano 5 a testa, dunque la metà. Insomma, mettendosi insieme si ottimizzano gli spazi e quindi i costi, anche dell’energia».
Un ulteriore beneficio deriva dal percorso che conduce a realizzare un cohousing, come spiegano Lucio Massardo e Natalia Ardoino, fondatori dell’impresa sociale MeWe Abitare Collaborativo. Recuperando una scuola dell’800 in disuso in un piccolo comune, MeWe ha concertato con gli enti e le istituzioni locali una soluzione di cohousing per un gruppo di famiglie di genitori anziani con figli disabili alle prese con il “dopo di noi”. «Un intervento che, in assenza di sostegno pubblico, sarebbe costato 850mila euro – ci racconta Massardo -. Mettendo insieme tutti gli attori coinvolti con un lungo lavoro di concertazione e “rastrellando” tutti i possibili contributi pubblici, abbiamo chiuso il progetto ad un costo per i futuri abitanti di poco meno di 100mila euro. Ridurre il costo del mutuo, per famiglie che convivono con la disabilità, significa liberare risorse per affrontare i costi dell’assistenza e della riabilitazione». Per Ardoino, «ancor di più, c’è un guadagno sociale se pensiamo a quanta gratificazione può dare ad un ragazzo con disabilità il fatto di essere di supporto non solo in casa sua, ma anche per il vicino che ha bisogno della spesa a domicilio o che qualcuno curi il suo orto. Per la comunità nel suo insieme, ogni persona diventa una risorsa nella sua specialità. Dunque, il cohousing diventa un attivatore di rigenerazione urbana e sociale». Un valore che travalica l’età e le condizioni di salute: «Dopo il Covid, una famiglia che poteva pensare di comprare casa – osserva ancora Ardoino – si trova improvvisamente a non avere più la sicurezza economica per farlo. Ma non solo: siamo sicuri che una giovane famiglia che oggi compra casa e dovrà mantenerla potrà, tra 10 anni, soddisfare i bisogni educativi e culturali dei figli? In un cohousing, dove ho meno spazi individuali, più spazi comuni e un’assistenza diffusa, potrò condividere i bisogni e i costi. Avrò, ad esempio, una mamma vicina di casa che mi compra le medicine in farmacia mentre io le faccio da babysitter». È il principio della mixité, la mescolanza: «Se noi mettiamo insieme fragilità diverse, abbiamo mutuo supporto; se noi mettiamo insieme le stesse fragilità, avremo sempre bisogno di supporto esterno, estraneo, temporaneo, pagato», evidenzia. Un principio che si manifesta nel carattere “intergenerazionale” del cohousing. «Non è un caso il fatto che le categorie che mostrino maggior interesse verso l’abitare condiviso siano, da un lato, gli anziani attivi, dall’altro le giovani coppie o famiglie con bambini piccoli», sottolinea a sua volta Robiglio. Per chi lo sceglie, infatti, il cohousing è un potente generatore di relazioni e, dunque, un antidoto alla povertà di legami che, come segnalano le ricerche sociologiche, «ha effetti patologici sulla salute della persone – osserva il docente del Politecnico di Torino – ed è spesso anche causa di povertà economica perché la solitudine genera minore conoscenza e minori collegamenti con le opportunità che potrei avere».
In questa logica, va prestata particolare attenzione ad interventi a sostegno di un cohousing esclusivamente “anziano” o per non autosufficienti, come la coabitazione per gli over 65 in difficoltà economica finanziata con un fondo di 5 milioni di euro dalla Legge di Bilancio 2022, o la coabitazione solidale delle persone anziane prevista sia nel Piano nazionale per la non autosufficienza che nel disegno di legge delega per gli anziani non autosufficienti. Michela Cane coordina il gruppo di lavoro Social Homing, start up vincitrice del premio “Prepararsi al futuro” del Festival Nazionale dell’Economia Civile 2022, nata in seno a MeWe Abitare Collaborativo per individuare forme di abitare condiviso anche fra le nuove generazioni. «Il vivere insieme diventa un buon vivere quando offre la possibilità a diversi soggetti – famiglie, single, lavoratori, artigiani, giovani, anziani – di vivere insieme per scelta, poiché condividono obiettivi, valori, stili di vita. Per le persone fragili, in particolare, il cohousing funziona nel momento in cui è un’integrazione e non diventa un “ghetto”, ognuno ha un suo posto e non si è soli». Tenendo ovviamente in considerazione il grado di non autosufficienza della persona, evidenzia il professor Robiglio, «un cohousing che offra una sala infermieristica, attrezzata per la diagnostica domiciliare ma anche come studio medico di base o di medicina sportiva, dove la telemedicina sia integrata nella casa ma l’infrastruttura sia condivisa, è un’occasione per non fare sentire la persona “malata” ma parte di una comunità». Ovviamente, per tutto questo è decisivo, come abbiamo detto, il sostegno pubblico. Ad esempio, guardiamo alla Legge di Bilancio 2022: stanziare 5 milioni di euro sul territorio nazionale per il cohousing degli over 65 in difficoltà economica «è ben poco – evidenzia Lucio Massardo di MeWe – se si pensa che nel passato il solo Fondo di sostegno alla locazione della Liguria per un anno ne ha stanziati circa 12 di milioni. A Barcellona, l’amministrazione guidata da Ada Colau ha investito 152 milioni di euro nell’edilizia pubblica. Fare questo tipo di politiche implica metter mano al portafogli».
L’Università degli Studi di Ferrara ha dedicato un progetto di ricerca multidisciplinare proprio al tema “Anziani e diritto all’abitare”, somministrando un questionario ad un campione di persone anziane e di caregiver. A coordinare il team di giovani ricercatori, Maria Giulia Bernardini, ricercatrice in Filosofia del diritto del Dipartimento di Giurisprudenza. «Rifiutando ogni lettura medicalizzante della condizione anziana, non abbiamo considerato unicamente i servizi sociosanitari – spiega -, ma anche quelli relativi alla mobilità e alla dimensione socio-culturale oppure alla presenza e fruibilità degli spazi pubblici e delle aree verdi». Anche se la ricerca è ancora in corso, la dottoressa Bernardini ci ha anticipato alcuni dei risultati che stanno emergendo: «Chi vive in città è mediamente più soddisfatto della presenza dei servizi e delle opportunità di socializzazione rispetto a chi vive nelle aree rurali ed è possibile affermare che la variabile di genere contribuisce in modo determinante all’isolamento e all’esclusione sociale delle donne con disabilità». Inoltre, «il cohousing può costituire una valida soluzione abitativa, perché permette non solo di abbattere i costi dell’abitare, ma anche di rispondere alle esigenze relazionali – che soprattutto fra gli anziani sono particolarmente avvertite – e di avere un migliore accesso ai servizi, non solo di tipo sanitario, perché il benessere individuale, come è noto, è un concetto complesso, che non si limita alla sola salute. In quest’ottica, ad esempio, la preferenza deve andare sicuramente ad una progettazione partecipata, a soluzioni abitative che siano ubicate in zone sicure della città, che siano vicine ai servizi, e che non siano separate dall’esterno: lo spazio domestico e quello urbano vanno considerati in continua relazione».
Un modello che, con le opportune differenze, potrebbe essere esteso anche alle persone anziane non autosufficienti: «Credo sia necessario superare quella che mi piace indicare come “grande divisione”, ossia la distinzione tra le persone anziane che sono autonome e quelle che sono fragili e non autosufficienti. Queste differenze vanno riconosciute, per rispondere adeguatamente alle esigenze di ciascuno, come richiede anche il rispetto del principio di eguaglianza. Mi sembra però che distinguere a priori porti spesso a non riconoscere alcuni diritti o a ritenere inattuabili alcune soluzioni sulla base di pregiudizi, e non della realtà effettiva. Questo vale anche nel caso del cohousing, che per la maggior parte è riservato alle persone anziane autonome. Eppure, nulla vieta di estenderlo anche alle persone anziane considerate non autosufficienti, anche se chiaramente il modello dovrà essere diverso rispetto a quello proposto per coloro che hanno gradi più rilevanti di autonomia: esistono ad esempio esperienze che realizzano un modello intermedio tra l’assistenza in struttura e quella a domicilio, e che comunque è diretto a valorizzare la condivisione delle risorse familiari».
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