Per alcune specie animali, superare il secolo di vita non è un fatto eccezionale. Qual è il segreto? Possedere un maggior numero di copie di alcuni geni protettivi che rallentano l’invecchiamento
Loro ci sono riuscite. E non sono le uniche. Gli fanno compagnia gli elefanti, tanto per fare un per esempio. Oltre alle dimensioni gigantesche, le tartarughe delle Galapagos condividono con i pachidermi la caratteristica più ambita di ogni specie, Homo sapiens in primis: vivere a lungo, molto a lungo, e in salute. Sì, perché la natura ha deciso che ad alcuni animali la longevità spetti di diritto, come un bonus premio consegnato all’intera categoria e non solo a singoli individui.
Insomma, nel caso delle tartarughe e degli elefanti, centenari si nasce e non ci si deve sforzare più di tanto per diventarlo. In assenza di imprevisti, per questi animali superare il traguardo di un secolo di vita è la regola e non l’eccezione. Da che dipende questa fortuna? Ammettiamolo onestamente: la domanda non è per nulla disinteressata. E se ci sta così tanto a cuore scoprirlo è perché speriamo di poter rubare alla natura il segreto della longevità e di servircene poi per allungare la vita della nostra specie.
Gli studi sulle tartarughe delle Galapagos e sugli elefanti invitano a rivolgere l’attenzione ad alcune specifiche caratteristiche genetiche tipiche di questi animali e non di altri. Si è scoperto, infatti, che le testuggini e gli elefanti posseggono, in numero superiore rispetto ad altre specie, le copie di alcuni geni protettivi che rallentano l’invecchiamento e allontano il rischio delle malattie legate all’avanzamento dell’età, come il cancro. Questi geni, cercheremo di spiegarlo in maniera semplice, innescano un processo di riparazione del Dna dai danni dell’invecchiamento o dei tumori. Per questa ragione il cancro è una malattia rarissima sia tra le tartarughe delle Galapagos che tra gli elefanti. Fortunati loro.
Noi che apparteniamo alla specie Homo sapiens non siamo stati così tanto premiati dalla natura. Non possiamo lamentarci se ci confrontiamo ai nostri “cugini” scimpanzé, che raramente superano i 50 anni di età. Secondo alcune stime recenti, alcuni di noi potrebbero arrivare entro il 2100 a vivere fino a 130 anni. Ma si tratterà comunque di casi eccezionali perché i geni della longevità non vengono assegnati di default a tutti gli esseri umani, non sono il marchio di fabbrica di ogni esemplare messo al mondo. Per la maggior parte di noi, la longevità è una conquista più che un destino e per ottenerla si punta sullo stile di vita, l’alimentazione sana, l’attività fisica regolare, niente fumo ecc… È questa la via umana per campare cent’anni.
Ma le persone estremamente longeve, quelle che arrivano a spegnere in salute 105, 110, 115 candeline (il record attuale è di 122 anni), hanno una marcia genetica in più, la stessa delle tartarughe giganti e degli elefanti. Anche loro posseggono un meccanismo di riparazione del Dna grazie al quale la salute viene preservata a lungo. Lo ha dimostrato uno studio recente dell’Università di Bologna condotto su 81 supercentenari italiani il cui genoma è stato analizzato in ogni minimo dettaglio, in cerca del “trucco” che permette di tenere alla larga le malattie dell’invecchiamento.
«L’invecchiamento è un fattore di rischio comune per diverse malattie e condizioni croniche. Abbiamo scelto di studiare la genetica di un gruppo di persone che vivevano oltre i 105 anni e di confrontarle con un gruppo di giovani adulti della stessa area in Italia», ha spiegato Paolo Garagnani, professore associato presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale, Diagnostica e Specialistica dell’Università di Bologna e primo autore dello studio.
Il genoma degli 81 supercentenari è stato messo a confronto con quello di 36 persone in salute di circa 60 anni, per individuare le differenze nei geni tra i più anziani e i più giovani. Dal confronto è emerso che gli ultracentenari posseggono alcune specifiche caratteristiche genetiche simili a quelle delle specie animali più longeve. Chi possiede questi particolari tratti genetici può, per dirla in maniere semplice, fare affidamento costantemente su una squadra di pronto intervento all’interno delle cellule, che ripara i danni del Dna ogni volta che se ne verifica uno. Non solo: il fortunato corredo genetico degli ultracentenari consente all’organismo di eliminare le cellule danneggiate (spingendole al suicidio, apoptosi) e di contrastare il cosiddetto stress ossidativo, responsabile della formazione dei famigerati radicali liberi associati all’invecchiamento. Tutti questi processi sono coinvolti nell’insorgenza e nello sviluppo di molte malattie, come il cancro.
Ma il genoma degli ultracentenari si distingue anche per un altro aspetto che sembrerebbe cruciale per allungare la vita: il Dna delle persone estremamente longeve presenta un numero basso di quelle mutazioni che naturalmente si accumulano nell’arco della vita.
Lo studio suggerisce quindi che il segreto della longevità estrema è scritto nei geni e che dipenda dalla combinazione di due fattori: l’abilità di riparare i danni del Dna e la possibilità di ridurre al minimo le mutazioni naturali.
«Precedenti studi hanno dimostrato che la riparazione del Dna è uno dei meccanismi che consentono una maggiore durata della vita tra le specie. Abbiamo dimostrato che questo è vero anche per gli esseri umani e i dati suggeriscono che la diversità naturale nelle persone che raggiungono gli ultimi decenni di vita è, in parte, legata alla variabilità genetica che conferisce ai semi-supercentenari la peculiare capacità di gestire efficacemente il danno cellulare durante il loro corso di vita», commenta Cristina Giuliani, professore associato presso il Laboratorio di Antropologia Molecolare, Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali, Università di Bologna, coautrice dello studio.
Con tanta buona volontà e un po’ di fortuna, molti di noi potrebbero diventare centenari. Ma senza i geni giusti ci si ferma lì.
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