Da una ricerca statunitense emerge che l’apporto integrato di vitamina D non sia in realtà utile ad evitare le fratture, neanche in soggetti affetti da osteoporosi. Cosa c’è di vero e l’opinione degli esperti.
Assumere vitamina D attraverso gli integratori è un’abitudine consolidata per migliaia di cittadini italiani. Secondo il rapporto OsMed (Osservatorio Internazionale Impiego Medicinali) presentato il 29 luglio scorso, la spesa pro capite per i farmaci anti osteoporosi è cresciuta del 20,7% nel 2021. In Italia attualmente soffrono di osteoporosi 3,5 milioni di donne e 1 milione di uomini. Ma sono cifre destinate ad aumentare. Nello specifico, la spesa per la vitamina D e analoghi (5,16 € pro capite) rappresenta circa il 50% della spesa dell’intera categoria con un aumento del 20% rispetto al 2020. Numeri che spingono l’Aifa a interrogarsi su un indirizzo più mirato di questo integratore, con un conseguente risparmio di spesa convenzionata pari a centinaia di milioni l’anno.
Lo studio su vitamina D e il rischio fratture
A sostegno di questa posizione, un articolo recentemente pubblicato sulla rivista NEJM evidenzia una sostanziale inutilità del farmaco per la riduzione del rischio di frattura. La ricerca è parte di un’indagine svolta dal NIH, l’Istituto Superiore di Sanità statunitense, volta a esaminare gli effetti degli integratori di vitamina D sulla salute . È opinione comune ormai, già dagli anni ’70, che un suo uso regolare sia determinante per prevenire le fratture, grazie alla capacità di questo ormone di assorbire il calcio nelle ossa. Lo studio quinquennale, condotto su 26mila persone di ambo i sessi con un’età media di 67 anni, indica però che in realtà la sua somministrazione non basta per mettersi al riparo dai danni provocati alle ossa da incidenti e cadute. Neanche se il paziente è affetto da osteoporosi.
Le pillole non sempre aiutano
I ricercatori infatti hanno concluso che la dose di vitamina D3 normalmente presente negli integratori (circa 2mila Ui), non comporta una riduzione dei casi di traumi. Se infatti, nel corso degli anni, hanno osservato nei 12.927 che avevano assunto il farmaco 769 fratture, quasi altrettante (782) ne hanno riscontrate in coloro che invece avevano assunto il placebo. E ciò a prescindere da fattori di rischio presenti nel campione, come obesità o età avanzata. O livelli di vitamina D nel sangue inferiori ai 20 nanogrammi per millilitro, soglia limite per una diagnosi di carenza. In particolare, affermano gli autori, «l’integrazione della vitamina non ha comportato un rischio di fratture significativamente inferiore rispetto al placebo tra gli adulti di mezza età generalmente sani e gli anziani che non sono stati selezionati per carenza di vitamina D, massa ossea ridotta oppure osteoporosi».
Il dibattito sull’efficacia della prevenzione
Prima ancora che in Italia la questione ha sollevato molto interesse negli Usa, dove il mercato degli integratori è particolarmente fiorente. Molti esperti affermano che, a prescindere dai risultati, continueranno a prescriverli fidando nelle capacità di prevenzione. Mentre altri, come gli endocrinologi Cummins e Rosen, auspicano che i dati chiudano una volta per tutte la stagione delle prescrizioni indiscriminate. “Le persone adulte e anziane, affermano, dovrebbero smettere di assumere questo ormone in via preventiva”. A meno che, specificano, non siano a grave rischio osteoporosi per condizioni personali. Come l’impossibilità di esporsi alla luce solare o di consumare alimenti ad alto contenuto di vitamina D, ad esempio cereali e prodotti del latte.
Limiti dello studio
Secondo quanto riconoscono peraltro gli stessi autori, l’indagine, per quanto ampia, presenta tuttavia dei limiti piuttosto importanti. Come l’aver utilizzato una sola dose fissa di vitamina D per l’intero campione e l’averla somministrata senza l’aggiunta di calcio, a differenza di quanto prevede il protocollo per l’osteoporosi. Inoltre i risultati potrebbero non essere applicati agli anziani ricoverati o agli adulti già affetti da fragilità ossea.
No alle prescrizioni indiscriminate, sì al buonsenso
Nell’editoriale di accompagnamento allo studio noti endocrinologi statunitensi affermano che si può parlare di carenza di vitamina D solo in casi estremi. E che le persone dovrebbero evitare di assumerne supplementi per prevenire le malattie o aumentare la durata della vita. In attesa di ulteriori accertamenti, restano sempre validi i consigli per ridurre i rischi di fragilità ossea e di caduta. Un’attività fisica regolare, anzitutto. Poi una esposizione corretta ai raggi solari che comprenda viso ed arti per una ventina di minuti tre volte a settimana. Senza dimenticare di prestare attenzione a quei farmaci, come i sonniferi, che inducono vertigini. In casa poi, soprattutto in presenza di un anziano, è importante illuminare bene i locali, eliminare i tappeti e ogni oggetto di inciampo.
La posizione dell’Aifa
Nel 2017 il SSN ha sborsato 260 milioni di euro per rimborsare le prescrizioni di integratori agli italiani. Già nel 2019, per questo, l’Aifa in una nota (la numero 96) ha delimitato i criteri di rimborso e di accesso ai test per accertare la carenza di vitamina D. Un controllo peraltro normalmente inserito tra quelli di routine assegnati dai medici di base. Il concetto di fondo è che – a meno di non essere anziani con una acclarata fragilità ossea o con un deficit endemico di vitamina D – sia preferibile ricorrere a strategie di difesa non farmacologiche, evitando di integrarne la mancanza con un’assunzione indifferenziata.
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