Il segreto per vivere bene e a lungo sta nella “normalità”. Vivere “qui ed ora”, godendo di ciò che ci circonda, senza dimenticare che un futuro (buono) si inizia a costruire dal presente
Oggi l’aspettativa di vita delle donne italiane sfiora gli 85 anni e quella degli uomini poco meno. Alcuni studi indicano che tra qualche decennio arriverà a 90 anni (ricordo che si tratta di una media e che quindi saranno sempre più, ad esempio, i centenari). Questo fenomeno, che ha avuto un breve e transitorio rallentamento a causa del Covid-19, impressiona sia gli studiosi sia chi guarda al futuro della nostra società con occhio attento, analizzando le possibilità di ciascuno di trovare spazi di vita “possibili” anche in età molto, molto avanzata.
Non vi sono adeguate indicazioni che permettano di prevedere la durata della vita del singolo individuo; le conoscenze sulla dialettica tra genetica ed epigenetica non offrono ancora la possibilità di identificare il gene della longevità né di aggregazioni di geni che potrebbero essere responsabili di una vita lunga. Anche perché gli studi condotti su modelli animali di varie tipologie non sono stati riprodotti sull’uomo. Infatti, il peso della vita e delle sue circostanze è tale che sarebbe in grado di modificare il ruolo anche di un ipotetico gene, peraltro da scoprire. Questa condizione è un antidoto a qualsiasi tentazione di fatalismo; vi è infatti spazio per “vivere bene” una “vita possibile”, permettendo ai geni di esprimere le loro potenzialità, ma sempre modulati dalle circostanze della vita. La “dittatura genetica” non esiste a nessuna età.
L’aspettativa di vita è determinata geneticamente solo in parte, mentre la qualità della vita è responsabile del bene e del male che può avvenire. Elementi come, ad esempio, l’alimentazione possono influenzare in modo determinante l’effetto dei geni sulla longevità. Uno dei meccanismi maggiormente studiati per la loro implicazione come target biologici di specifici atteggiamenti è quello dell’infiammazione cronica, le cui ricadute sulla vitalità dei tessuti sono largamente studiate. Il punto centrale, che rappresenta il vero progresso possibile in questo campo, sarà però rappresentato dalla descrizione analitica dei vari passaggi che collegano uno stile di vita con un evento complesso come la durata della vita stessa, passando attraverso l’espressione dei geni e l’interazione tra livelli biologici diversi.
Si arriva, infine, a delineare il quadro vitale della persona che invecchia tenendo nelle mani il proprio futuro. Questa deve essere in grado per educazione – e grazie all’accompagnamento di individui addetti alle cure, quando necessario – di agire secondo le regole che permettano di conservare la salute, senza le angosce che impediscono una vita “normale”. Perché è la normalità che è allo stesso tempo l’obiettivo da raggiungere e lo strumento per vivere a lungo. Senza eroismi e sacrifici, ma ogni momento ponendosi nella condizione di apprezzare ciò che qui e ora è possibile fare, godendo di quello che la vita offre. Perché ciò si avveri la persona deve aver governato la propria esistenza nel corso degli anni; la vera libertà si fonda sulla capacità dell’individuo di non rinunciare ad essere padrone del tempo, anche quando è accompagnato dal dolore, dalla perdita, dalla solitudine, dalla povertà. Per capire queste dinamiche è necessario comprendere le relazioni tra cervello, corpo, ambiente psicosociale e fisico; un’area dove la vita può raggiungere il suo massimo livello di ricchezza, anche se di non facile interpretazione.
Ogni progresso in questo campo deve essere accompagnato da studi e ricerche, consci che si tratta di ambiti aperti a possibili novità e a interpretazioni profondamente diverse da quelle del passato. L’epoca dell’entusiasmo per le scoperte sul genoma umano ha lasciato molta delusione in chi si fondava su meccanismi interpretativi della realtà troppo semplificati; oggi la sfida vera risiede nella “lettura” della complessità della vita umana, che è determinata da geni e storia. Si ripropone sotto forme diverse l’antico dilemma tra natura biologica e realtà personale; questa volta, però, l’obiettivo è di grande importanza, perché è la durata stessa della vita, cioè l’aspetto più concreto e desiderato dall’umanità di tutti tempi.
Il solo pensare che per la prima volta nella storia abbiamo la possibilità di modificare in modo rilevante ed in breve tempo – come è avvenuto in questi anni – la durata della vita deve porre l’uomo e la donna contemporanei in una condizione di attenzione al proprio destino, come mai è avvenuto in passato. Quindi, pur con tutte le incertezze che accompagnano la problematica, mai come oggi vi sono le fondamenta teoriche e pratiche per impostare una vita attenta al proprio futuro. Il punto più innovativo rispetto a questa problematica è che anche a 90 e più anni la dialettica gene e stile di vita continua ad avere un ruolo importante; l’età molto avanzata non inaridisce la complessità e la ricchezza della vita. Queste certezze hanno ricadute a livello psicologico e pratico: il singolo e la collettività non devono pensare che si sia esaurita la forza della vita e la relativa possibilità di modificarne la traiettoria. Non si raggiunge, quindi, mai un tempo che permetta di porsi in una posizione di attesa, cioè di “tirare i remi in barca”. Perché la difesa della vita non può basarsi su attese, ma su un impegno strenuo, faticoso, nobilissimo.
Marco Trabucchi è specialista in psichiatria. Già Professione ordinario di Neuropsicofarmacologia all’Università di Roma “Tor Vergata”, è direttore scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia e direttore del Centro di ricerca sulle demenza. Ricopre anche il ruolo di presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria e della Fondazione Leonardo.
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