Vincenzo Mingacci. Pensionato, ex dipendente Eni, ex profugo della Libia rientrato in Italia nel 1970. Partecipa al Concorso 50&Più per la terza volta, nel 2022 ha vinto la Farfalla d’oro per la prosa. Vive a Livorno.
L’idea di tornare in Libia, che avevamo forzatamente lasciato quasi quarant’anni prima, non mi aveva mai abbandonato. Ma non era la nostalgia di rivedere i luoghi dove avevo passato i miei primi venti anni che mi spingeva a farlo. No, sarebbe stata una gran delusione, a giudicare anche da quello che si vedeva alla TV e dai racconti di amici che erano già tornati da turisti. Ma allora a cos’era dovuto quel desiderio di tornare? Cosa mi era mancato, cosa non avevo potuto vedere, scoprire, andare ad esplorare di cui da ragazzo avevo tanto sentito parlare? Il deserto del Sahara e tutti i suoi segreti.
L’occasione fu quel viaggio organizzato da un gruppo di archeologi, paleo etnografi e ricercatori dell’università di Bologna che mi erano stati presentati da amici comuni e che erano stati incaricati di raccogliere dati per la formazione di un parco archeologico nel sud della Libia.
Arrivati a Tripoli prendiamo un volo interno, un piccolo aereo ci aspetta sulla pista, il pilota, pantaloni kaki, scarponcini in tela, foulard rosso al collo e una camicia bianca con le mostrine di capitano dell’aviazione ci invita a salire a bordo. Ci sediamo su spartani sedili di tela ed allacciamo le cinture. Si parte avvolti in una nube di polvere, l’ombra del piccolo aereo ci accompagna sulla pista per un breve tratto poi scompare. Si sale di quota lentamente, direzione sud. Ripetuti violenti sobbalzi ci consigliano di stringere ancora un po’ le cinture ma un’occhiata al pilota ci tranquillizza. si guarda attorno con noncuranza, tutto ok fa segno col pollice, sono le correnti calde che salgono dal suolo che ci fanno ballare. Ci troviamo in qualche punto del deserto, sul Fezzan la terza regione più meridionale della Libia. Un’occhiata fuori dal finestrino durante una leggera virata ci presenta un paesaggio spettacolare. In un mare di sabbia gialla, distese sassose si alternano a macchie di vegetazione bassa e arbusti spinosi, sorvoliamo un altopiano scavato dagli wadi che scaricano a valle le acque delle rare ma violente piogge. L’altopiano, il Messak, dalla morfologia rocciosa è sempre stato considerato dai carovanieri un luogo inospitale e pericoloso. Numerose furono nel passato le spedizioni scientifiche italiane e tedesche, alla ricerca delle incisioni rupestri lungo le pareti degli wadi. Con un’ultima virata il piccolo aereo sorvola i minareti delle moschee di Sebha, la capitale della regione, e si prepara a rullare sulla pista. Le nostre guide Tuaregh ci aspettano ai bordi della pista appoggiate ai cofani luccicanti delle Toyota che ci porteranno su queste piste impossibili ai nostri appuntamenti con i siti di interesse. Muktar la nostra guida Tuareg porta un lungo scialle bianco avvolto attorno alla testa lasciando una piccola fessura per gli occhi, protezione indispensabile per quando si alza il ghibli, il vento caldo del deserto, la tunica di un azzurro intenso lo copre fino ai piedi. Tiene in mano la collana del Corano che fa scorrere velocemente fra le dita, con un sorriso ci saluta toccandosi il petto, mostrando una fila di denti anneriti dal thè e ci fa salire sul mezzo.
Parla poco Muktar, si concentra sulla guida dato che la pista è particolarmente sconnessa e piena di ostacoli. Siamo diretti verso il confine sudorientale fra Libia ed Algeria, i fuoristrada procedono a ventaglio per evitare le nuvole di polvere rossa che si alzano dai mezzi. Si suda e l’aria condizionata non sembra darci alcun sollievo. Finalmente giungiamo sul posto, lasciamo le macchine a ridosso di un avvallamento e proseguiamo a piedi all’interno del wadi incassato fra due alte pareti di arenaria scura. Il gruppo si disperde, ognuno interessato ad osservare ciò a cui più è interessato. Il letto del fiume , secco da molti mesi, è un insieme di sabbia e rocce scure all’apparenza insignificanti, lungo un lato una serie di rocce rosso scuro dalla forma tondeggiante attira la nostra attenzione , presentano delle venature circolari, non sono rocce ma alberi pietrificati a dimostrazione che millenni addietro nel Sahara c’erano foreste ed animali come vedremo in seguito. Muktar, in piedi su una roccia mi chiama e mi mostra degli escrementi seccati dal sole, “sono di Waddan” dice, un muflone maestoso dalle grandi corna ricurve, uno degli animali simbolici del deserto.
Avanzando nella sabbia bollente col suo passo elegante e sicuro mi fa vedere altre impronte, una serie di buchi lasciati dagli zoccoli minuscoli di una gazzella, una volta numerose in queste zone ma ormai quasi scomparse decimate dalla caccia spietata che ne ha fatto l’uomo. La varietà vegetale presente nel letto del wadi è sorprendente, forse perché in profondità è sempre presente dell’umidità residua dove le acacie spinose riescono a spingere le proprie radici, qua e là cespugli di artemisia, gruppi di fiori gialli e rossi come quelli dei nostri prati montani. Un battito d’ali improvviso e due pernici rosse si alzano in volo disturbate dalla nostra presenza, altre tracce sulla sabbia, tante virgole, lunghe circa dieci centimetri tutte sovrapposte l’una all’altra sono il segno lasciato dal passaggio di una naja, la vipera cornuta, non deve essere lontana nascosta sotto la sabbia, facciamo attenzione. C’è vita nel deserto. Facciamo una pausa all’ombra di un’acacia, qualcuno tira fuori le borracce, la vista dell’acqua ci fa venire una sete che non pensavamo di avere, il caldo secco del deserto può ingannare l’organismo. Una delle guide ci racconta di un fatto accaduto durante l’ultima guerra, la storia del “lady Be Good” un bombardiere americano B24 con nove persone d’equipaggio caduto in queste zone. Nel 1943 l’aereo era partito da Bengasi allora nelle mani degli inglesi per andare a bombardare Napoli, ma quasi a metà strada dovette tornare indietro per un guasto alla strumentazione di bordo. Sganciate in mare le bombe il pilota con una lunga virata sul deserto si apprestava a rientrare a Bengasi quando incontrò una tempesta di sabbia e smarrì la rotta. La mancanza di visibilità e di strumentazione portò l’aereo sempre più all’interno del deserto, e finito il carburante fu costretto ad un atterraggio d’emergenza sulle dune del grande deserto orientale. Il pilota fu abile e nell’atterraggio ci fu solo qualche ferito e l’aereo ormai senza più carburante non prese fuoco. Per più di vent’anni di quell’aereo non si seppe più nulla, poi all’inizio degli anni Sessanta in questa parte del deserto iniziarono le ricerche petrolifere e fu così che l’aereo venne ritrovato. Visto dall’alto l’aereo poggiato a terra con le ali aperte sembrava un grande uccello morto, attorno alla carcassa giacevano i resti di otto membri dell’equipaggio morti per disidratazione, nell’attesa di un aiuto che non poteva arrivare perché nessuno sapeva dove fosse finito. Un componente fu trovato ammanettato alla carlinga probabilmente impazzito e per questo avevano cercato di tenerlo a bada. Il nono membro dell’equipaggio, forse quello più in salute era probabilmente andato a cercare aiuto ma anche di lui non si seppe più nulla, il deserto aveva reclamato la sua nona vittima. Pomeriggio inoltrato, il calore si fa più sopportabile e riprendiamo il percorso per l’ultima e più importante ispezione prima di accamparci per la notte. Ora le rocce sono più grandi, alte e rossicce, in alcuni tratti l’erosione della sabbia portata dal vento le ha scavate formando delle piccole grotte, siamo arrivati. Quello che ci attende è davvero straordinario, su quelle rocce vi sono centinaia di incisioni soprattutto di animali, antilopi, giraffe, struzzi, su un grande masso in posizione verticale è raffigurato un grande bufalo con la testa bassa come faticasse a reggere il peso delle enormi corna arcuate.
Le scene, alcune abbozzate altre eseguite con grande perizia ritraggono anche figure antropomorfe, un guerriero in corsa tiene una lancia in mano e sembra girarsi con la rotazione del busto verso di noi, anche un elefante visto di lato ruota la grande testa verso l’osservatore che può vedere entrambe gli occhi.
Le figure ritratte di scorcio sembrano quasi anticipare di millenni i primi tentativi degli artisti di rappresentare la profondità delle immagini. Questi graffiti costituiscono un’evidente testimonianza del livello di evoluzione espressiva raggiunta da queste popolazioni rivelata con solo pochi tratti di incisioni e stiamo parlando di graffiti risalenti a più di otto/diecimila anni fa. Ma le sorprese non sono finite, ci aspetta la parte più spettacolare e per me ancora più incredibile di questo spettacolo, quello di cui avevo tanto sentito parlare e che mi ha portato a partecipare volentieri a questa spedizione: le arti rupestri del Tassili in territorio algerino. Ci siamo spostati di alcuni chilometri oltre il confine, il territorio è ancora più montuoso, le pareti rocciose più alte, le caverne più ampie e lo spettacolo grandioso, sembra che gli artisti del tempo si siano dati tutti appuntamento in queste zone per dar vita ad un festival delle rappresentazioni di vita quotidiana del tempo, le scene si ripetono, donne uomini, animali tutto si confonde in un turbinio di sfumature di colori dal rosso all’ocra ora più chiaro ora più scuro. Un gruppo di donne longilinee, con acconciature eleganti ed alti turbanti dialogano sdraiate in atteggiamenti rilassati, una brandisce un arco e ci fanno immaginare un etnia in cui la donna è protagonista, guerriera, una specie di Amazzone , altre scene di caccia di susseguono ma quella che più ci ha suggestionato è stata la scena degli Alieni. Un gruppo di creature misteriose vestite da astronauti con casco, tuta, grossi cinturoni, guanti e stivaletti procedono in fila mentre più distante un’altra pittura rappresenta uno di questi strani astronauti che conduce per mano una donna seguita da altre donne che sembrano danzare tenendosi per mano verso una grande sfera, quasi a descrivere un rapimento da parte di questi Alieni. Ci guardiamo tutti sbalorditi, ma come è possibile? Sarà stato un buontempone che avrà voluto aggiungere il suo tocco di mistero a tutta questa bellezza? Eppure le analisi degli specialisti si sono soffermate a lungo su queste iscrizioni ed il risultato è che sono originali e tutte databili fra i 5000 e 10000 anni fa, quindi dal 3000 al 7000 a.C. E’ possibile che in quei tempi gli Alieni siano scesi sulla terra per conoscerci, studiarci e poi abbiano deciso di lasciarci in pace perché non eravamo di loro interesse? Si è fatto tardi, le ombre si allungano sulla sabbia tiepida è tempo di prepararsi a passare la notte. Ci sediamo incrociando le gambe attorno al fuoco, il thè con le noccioline è dolcissimo, è subito buio, fa freddo e ci copriamo con una coperta, ora sentiamo la stanchezza e ci accoccoliamo sulla sabbia. Un Fennech, la piccola volpe del deserto, attirata dall’odore di cibo fa capolino fra le rocce, è un animaletto buffo, con le orecchie grandissime che servono a dissipare il calore, gli gettiamo un pezzetto di pane. Sdraiati sulla sabbia ripensiamo alle immagini straordinarie che abbiamo appena visto, Muktar mi guarda ed alzando un dito al cielo “shuf” mi dice “guarda” “Allah Akbar” Dio è grande, guardo in su, la volta stellata di un azzurro intenso come solo qui si può osservare è meravigliosa, si Dio è davvero Grande.