Questo Primo Maggio 2020 vede milioni di lavoratori in tutta Italia fare i conti con una crisi occupazionale ancora tutta da interpretare; ai tanti che il lavoro l’hanno perso si devono aggiungere i milioni di lavoratori messi in cassa integrazione. Ma c’è anche chi, pur avendo un’occupazione stabile e costruita in anni d’esperienza è stato costretto a cambiare il proprio modo di lavorare, cosicché ogni giorno deve fare i conti con esperienze diverse tutte da scoprire e sperimentare.
In attesa delle riaperture del 4 maggio e dell’inizio della Fase 2, mentre un pezzo di Paese spera di poter tornare a lavorare, ce n’è un altro che non si è mai fermato nonostante il lockdown. Sono i lavoratori di quelle categorie che i vari Dpcm hanno definito essenziali.
Lontano dagli occhi dei molti, si sono svegliati, hanno fatto i conti con la paura, hanno attraversato strade semi-deserte di città e paesi e sono andati a lavorare, per sé, ma una volta di più, per gli altri.
Annamaria, infermiera a Domodossola: «Ora vediamo solamente gli occhi»
Nulla l’aveva preparata ad un’esperienza del genere. In 14 anni di lavoro come infermiera, tra ospedali, case di riposo e medicina del lavoro, per Annamaria Belmonte, 37 anni, la sfida si è amplificata. «Il nostro lavoro non è cambiato nei contenuti, facciamo quello che abbiamo sempre fatto – spiega Annamaria – ma è cambiato il modo in cui lo facciamo. Perché ora abbiamo la consapevolezza che esiste un virus potenzialmente letale e, soprattutto, abbiamo costantemente davanti agli occhi quello che ci potrebbe accadere al minimo sbaglio».
Siamo in Piemonte, immersi tra i boschi. Fino a qualche mese fa Annamaria lavorava al reparto di medicina interna dell’ospedale di Domodossola, adesso al reparto Covid. A livello estetico tutto è rimasto come prima, eppure entrando sembra di essere in un posto completamente diverso, dove i letti sono quasi sempre pieni: «C’è quest’odore intenso di cloro nell’aria – spiega – che usiamo per disinfettare presidi e ambienti. Ma la cosa più evidente è che ormai non vediamo più i capelli o la bocca delle persone, ma solamente i loro occhi».
Essere infermiere in tempo di Covid19 non è facile. I turni sono infiniti, i contatti con le persone ridotti ai minimi termini, ogni lavoratore dell’ospedale è tenuto costantemente sotto controllo medico. «E dire che normalmente sono una persona ansiosa – scherza Annamaria -. Adesso viviamo tutti con questo sentimento, insieme alla paura. Vado al lavoro e ho sempre addosso questa tensione di fondo. Cerco di non concentrarmi sulla paura perché altrimenti scapperei, e non voglio scappare. Amo il mio lavoro e voglio averne rispetto».
Il modo per farcela c’è. Bisogna restare concentrati su quello che si sta facendo e soprattutto restare umani. Le relazioni sono fondamentali. «Cerchiamo di restare uniti tra noi – aggiunge – abbiamo bisogno di sentire che non soffriamo da soli, di farci forza e reagire insieme. Ridiamo, piangiamo, scherziamo, cerchiamo di fare tutto ma a distanza. Sappiamo che dobbiamo costruirci una corazza, né troppo sottile né troppo spessa, per fare in modo che le emozioni non ti entrino dentro la pelle».
Una corazza composta da tanti strati. Quello base: la divisa di stoffa e la cuffietta. A cui si aggiungono due paia di guanti, un camice idrorepellente e sopra ancora un secondo camice che se si sporca va subito sostituito. Quindi la mascherina Ffp2, la visiera con scritto il nome e i calzari ai piedi. «Abbiamo tutto appoggiato su un tavolino in modo da non dimenticare nulla – racconta Annamaria – e ci dobbiamo vestire sempre in coppia, per controllarci l’un l’altro. Dimenticare un pezzo può essere pericoloso».
Ai tanti che li chiamano eroi, Annamaria risponde convinta di non esserlo. «I veri eroi sono i pazienti. Perché noi una volta finito il turno andiamo a casa. Loro non sanno nulla di noi eppure devono affidarci tutto».
E ovviamente, non possono avere contatti fisici con le proprie famiglie. E siccome molti pazienti anziani non hanno il cellulare l’ospedale ne ha donato uno per ogni zona per far fare videochiamate ai parenti dei pazienti. «È davvero una delle cose più belle che succedono qui dentro».
Simone, imprenditore a Roma: «Il sorriso delle persone cancella la paura»
Il giorno in cui Giuseppe Conte annuncia il lockdown, per la maggioranza degli italiani si chiudono le porte di uffici e aziende ma non per Simone Cozzi, imprenditore romano di 48 anni.
Nel 2003 ha fondato un’azienda dell’agro-industria a filiera corta che ormai gestisce 4.000 ettari di terreno in tutta Italia. Il suo è anche un progetto etico-sociale che riqualifica terreni agricoli colpiti da calamità naturali, ridando lavoro a famiglie che lo avevano perso, come nel reatino post-terremoto.
Fino al 9 marzo i suoi clienti erano per lo più i ristoranti, molti stellati, in Italia e all’estero. Sulla carta la sua è una di quelle imprese che devono fermarsi ma le cose vanno diversamente.
«Per me era impensabile che tante persone che fino al giorno prima avevano aiutato questa azienda dovessero perdere il lavoro o rimanere a casa, in cassa integrazione, con un’inevitabile riduzione dello stipendio mentre il Paese era in difficoltà. La vedevo come una punizione più che una soluzione».
Per questo decide di riconvertire il modello di business portando prodotti come carne, formaggi, verdure e olio non più ai ristoranti ma alle famiglie che in quelle ore cominciano a prendere d’assalto i siti per la spesa online e a mettersi in coda davanti ai supermercati.
Lui e i suoi collaboratori diventano lavoratori essenziali. I primi giorni sono i più duri, gli standard rimangono gli stessi ma non esistono termini di paragone quando lavori in mezzo a una pandemia. E poi c’è la paura con cui fare i conti.
Quella di Simone e dei suoi collaboratori, paura per sé e per le proprie famiglie.
«La prima cosa che ho fatto è stata metterli al sicuro, abbiamo investito fondi per acquistare tutti i dispositivi di sicurezza, abbiamo modificato i turni per garantire le distanze tra le persone, ripensato le nostre abitudini di lavoro».
Da lì inizia una seconda vita per Simone e per i suoi dipendenti. I 15 autisti, che prima facevano consegne in cucine stellate come quelle di Enrico Bartolini o Niko Romito, ora iniziano a bussare alle porte di casa di tante famiglie.
Solo in un mese portano la spesa a domicilio a oltre 3.000 famiglie, per lo più nel Lazio. Gli ordini aumentano e anche Simone, ogni tanto, indossa guanti e mascherina e si mette alla guida per terminare le consegne.
«Mi ricordo un giorno, in prossimità della Pasqua, sono arrivato a destinazione in una Roma deserta; erano le undici di sera e una signora col cane mi ha fermato. Io pensavo che fosse perché avevo trovato un parcheggio di fortuna, invece no. Aveva capito cosa stavo facendo e voleva ringraziarmi. Ogni volta che mi hanno aperto la porta mi hanno accolto come una persona che porta soluzioni e supporto in una situazione psicologica che per molti giorni è stata difficile».
Pensando al domani, soprattutto al lavoro di domani, Simone racconta di una delle sue tre filiali all’estero. «Lo so che il momento è difficile, ma sono sicuro che il mercato ripartirà, lo sto vedendo a Hong Kong e sono certo che sarà così anche per noi».
Francesco, pasticcere a Palermo: «La “normalità” dentro un dolce»
A Palermo le arancine sono rigorosamente al femminile ma sono anche un’ancora di salvezza e quotidianità, in tempo di coronavirus e quarantena forzata. E non importa che non siano beni considerati primari.
«Ci chiamano in molti anche se siamo ben lontani dagli incassi abituali – spiega Francesco Massaro, quasi 52 anni – e dietro ogni ordine c’è una disperata richiesta di normalità che non possiamo ignorare».
Quello che sta vivendo Francesco, titolare di uno storico bar pasticceria che conta 40 dipendenti, è come un secondo tempo. Dopo vent’anni di giornalismo al Giornale di Sicilia, oggi è alla guida dell’attività di famiglia, fondata dal padre nel 1957.
«Mio padre per quel bar era tutto – racconta Francesco – quando è venuto a mancare ho capito che avrei dovuto prendere in mano le redini dell’azienda». Ed ora, in una manciata di mesi è di nuovo cambiato tutto. Tra chiudere e tentare con le consegne a domicilio, Francesco ha scelto questa seconda via, «perché credo fortemente che tra i doveri di un’azienda ci sia anche quello di rendere un po’ meno gravose, psicologicamente parlando, le giornate delle persone».
Prima del Covid19, il bar era aperto 365 giorni all’anno. «Ora è cambiato tutto, ci siamo dovuti adattare. Se prima andavo al bar alle 7 del mattino, adesso ci vado un’ora prima. Si tratta di prendere gli ordini rispondendo al telefono, controllando Whatsapp e Facebook, mandarli in laboratorio e inviare i fattorini in giro per tutta Palermo per le consegne».
Per lo più arancine, cassate, cannoli e anche le sfince, i dolci fritti ripieni di ricotta. «Naturalmente adottiamo tutte le precauzioni di sicurezza possibili – prosegue Francesco – i ragazzi hanno capito che è un momento drammatico per noi, e si sono messi a disposizione come forse non avevano mai fatto prima, con grande dedizione e impegno. Realizzando da soli che questo periodo così strano avrebbe potuto determinare, o meno, la salvezza dell’azienda».
Al dramma economico che molte aziende stanno vivendo, compresa quella di Francesco, fa da contraltare la riscoperta dell’altro. «In questi giorni mi sento di accogliere anche le richieste bizzarre, come quella di un signore anziano che mi pregava di mettere nella sua cassata i cosiddetti capelli d’angelo, una decorazione particolare. Mentre lo ascoltavo parlare mi sono reso conto che dietro quella richiesta c’era un mondo. Mi stava chiedendo un po’ di normalità ed io, che prima della quarantena avrei risposto di no, ho sorriso ed ho acconsentito».
Guardando al futuro immediato e alla ripresa della cosiddetta Fase 2, Francesco è ottimista. «Mi tiene vivo la responsabilità che sento di avere nei confronti dei miei dipendenti, ho un pensiero fisso: restituire il lavoro ai miei collaboratori che al momento sono fermi». Un pensiero che resiste nonostante le incertezze. «Temo che la ripresa sarà ancora più complicata di questo periodo di quarantena. Finora questa emergenza è riuscita a tirare fuori risorse che pensavamo di non avere. Speriamo che saremo in grado di mantenere a lungo questa energia positiva».
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