Marco Pandolfo chiede verità e giustizia a trentadue anni dall’omicidio del neurochirurgo messinese. Con l’associazione Libera invita i giovani ad avere coraggio
«Mio papà ha fatto in 51 anni quello che io in due vite non riuscirei a fare. Partendo da una famiglia umile, è diventato primario di Neurochirurgia degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria, lasciando un grande ricordo in chi ha avuto modo di incrociare il suo cammino e, oggi, in chi vuole ascoltare ciò che ha fatto». Il 21 marzo, primo giorno di primavera, “Libera” – rete di associazioni impegnata contro le mafie – promuove la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. E lui, Marco Pandolfo, ha trovato dal 2016 – anche grazie all’associazione fondata da Luigi Ciotti – una nuova missione: raccontare alle nuove generazioni la storia di suo papà, Domenico Nicolò Pandolfo, per tutti Nicola, freddato a Locri, dove era consulente del nosocomio, in pieno giorno, con 7 pallottole. Senza un ‘perché’ solo apparentemente. Ma soprattutto rimasto tristemente senza giustizia da quel 20 marzo del 1993. Ma procediamo per gradi. Chi era questo medico siciliano nato nel 1942 a Pace del Mela, un paesino in provincia di Messina? Si era formato poco lontano, all’Università di Messina, e le sue origini umilissime – era figlio di fattori – non lo fecero desistere dal suo sogno che divenne ancor più chiaro quando un suo zio cadde da un albero e rimase paralizzato. Lui, non solo si premurò di accudirlo, ma disse in cuor suo con piglio deciso: «Farò il neurochirurgo». La specializzazione a Padova e la chiamata a Lecce, quando il professor Bartolomeo Armenise ricevette il compito di dirigere il reparto di Neurochirurgia dell’ospedale regionale “Vito Fazi” e, avendo bisogno di un assistente preparato, chiamò appunto Nicola, quel giovane promettente che aveva incrociato nella città dello Stretto, quando era solo un tirocinante che già si distingueva: «A Lecce nacqui io – racconta Marco – ma presto si presentò una nuova opportunità. E lo era davvero considerando che il desiderio di mio padre era quello di lavorare per la sua terra amata. Con l’apertura agli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria, di una nuova divisione di Neurochirurgia, la cui direzione fu affidata al professor Romeo Eugenio Del Vivo, un neurochirurgo di fama internazionale, fu chiamato per il suo background anche papà». Il professionista accettò di buon grado questa sfida che si poneva davanti e nel 1990, non senza difficoltà, diventò primario del reparto. Tutto procedeva tranquillo, la famiglia si era già allargata con la nascita di Rita e Luca, e Maria, la compagna scelta da Nicola, decise anche lei di intraprendere un suo percorso professionale, diventando insegnante in giro per la Calabria. «Vivevamo sicuramente in un contesto particolare – continua – in cui si parlava sempre di morti ammazzati, ma mai avrei pensato che la mafia avrebbe bussato alla nostra porta. La nostra era una vita tranquilla e semplice, papà era talmente innamorato del suo lavoro che non lasciava mai nulla in sospeso. Per lui la medicina era come una missione. Da onorare al meglio. E finì tutto quando chiamò mia zia per dirci che al Tg2 aveva sentito la notizia che era stato gravemente ferito un neurochirurgo. Ci fu la corsa in ospedale ma i fatti andarono come sappiamo». Le ultime parole pronunciate dal professionista rimbombano ancora: “Sono stati i Cordì”. E i fatti allora sembravano chiari: il luminare fu ucciso perché considerato colpevole di non aver strappato dalla morte la figlia di un boss che aveva un tumore molto grave. Le indagini coordinate dall’allora sostituto procuratore della Repubblica del Tribunale di Locri, Nicola Gratteri, non portarono a nulla, anche se il principale indiziato era proprio Cosimo Cordì, considerato il capobastone dell’omonimo clan della Locride, che avrebbe commissionato l’omicidio, per vendetta. Ma il caso si chiuse perché l’uomo aveva un alibi di ferro. In quel periodo si trovava a Bologna e nessuno parlò: «La verità, secondo me – commenta amaramente Marco – non si saprà mai. Forse solo un pentito dopo trentuno anni potrebbe rimescolare le carte e non nascondo che ogni tanto prego che succeda perché è l’ultima speranza che posso coltivare. Però adesso voglio che si trasmetta il bello. Voglio ribadire che la speranza fiorisce sempre. Il racconto che io faccio è legato alle memoria perché molti, non solo non conoscono mio papà, ma anche Falcone e Borsellino, che dovrebbero essere conosciuti. Oggi chi ascolta i suoi passi apprezza il fatto che Nicola, pur vivendo in un contesto precario, di sanità non proprio all’avanguardia, non si è dato mai per vinto. Non era un disfattista. Del resto credeva molto nella meritocrazia e nel fatto che alla fine i migliori vengono premiati. L’importante è essere bravi, tenaci e non farsi sopraffare dallo scoramento. Faccio un esempio. Nel reparto in cui lavorava se mancavano dei macchinari importanti, come la tac, lottava per ottenerli e amava definirsi anche rompiscatole perché andava direttamente dal direttore sanitario per farsi portavoce di diritti fondamentali, ma in fondo, anche delle necessità dei pazienti che doveva operare».
Oggi Marco collabora anche con il progetto “Amunì” di Libera e accompagna i ragazzi che stanno seguendo una strada di riabilitazione: «In questi percorsi credo molto e presto lo farò anche in carcere. Credo – conclude – che chi sta scontando una pena può sognare comunque una via diversa, capire che si può cambiare. Questo è il senso che ho trovato elaborando il lutto. Mamma adesso è orgogliosa di me, anche se lei ha sempre preferito stare in silenzio e portare tenacemente avanti la nostra grande famiglia».
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