La scrittrice, vincitrice del premio Strega Giovani nel 2022, ama esplorare le possibilità della scrittura Tra invenzione e realtà, attualità e utopia colma vuoti e sfida le convenzioni
Sensibile, dissacrante, capace di spaziare dal racconto distopico al romanzo di formazione, Veronica Raimo è tra le voci più interessanti del panorama letterario italiano. Autrice di quattro romanzi e una sceneggiatura, ha catturato l’attenzione del pubblico e della critica con Niente di vero, il suo libro più recente, un memoir atipico (genere letterario ndr) pubblicato nel 2022 da Einaudi e vincitore nello stesso anno del Premio Strega Giovani e dello Strega Off. Romana, laureata in Lettere, un’esperienza di ricerca all’Università Humboldt di Berlino, Raimo ha la dote di certi scrittori “sensitivi”, che stanno al passo coi tempi senza inseguirli. Se in Miden (Mondadori, 2018) ha colto in anticipo implicazioni e potenziali contraddizioni del movimento “MeToo”, narrando la storia della presunta violenza su una ragazza ad opera di un professore universitario, dal duplice punto di vista dell’accusato e della sua compagna, con Niente di vero è riuscita a scrivere un romanzo familiare e generazionale. L’affresco di una condizione e di un sentimento: quelli di una giovane donna che sguscia tra i ruoli (figlia, amica, amante) e cerca il suo posto nel mondo.
Non sembra dar peso all’impresa, Veronica, seduta al tavolino di un bar del centro, sotto il cielo chiaro di un pomeriggio romano. «Non ho immaginato tutto questo – ammette candidamente -. Da piccola scrivevo. Poesie maledette in adolescenza, come forma di sfogo. Ma non ho mai avuto il sogno della scrittura né l’immagine di un destino. Poi a Berlino, grazie a una borsa di studio post-laurea, ho sperimentato per la prima volta la condizione di avere abbastanza soldi per vivere e tempo libero in abbondanza. Ho capito che l’accademia non faceva per me e ho sentito il bisogno di qualche forma di distrazione. È nato un romanzo non premeditato che ho sottoposto per un semplice confronto alla casa editrice Minimum Fax, con cui avevo contatti. È piaciuto, lo hanno pubblicato e tutto il resto è venuto di seguito».
Nell’incipit di Niente di vero Raimo rovescia una celebre frase del poeta polacco Czeslaw Milosz: “Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita”. Per lei, invece, non è la famiglia ma lo scrittore a fare una brutta fine. «Ho un rapporto conflittuale con la famiglia – spiega -. Con l’istituzione della famiglia. Con l’idea dei genitori che accudiscono e accompagnano i figli, spesso fuori tempo massimo, per legge e per consuetudine. I rapporti familiari sono in gran parte il prodotto di un condizionamento sociale. Sarebbe bello se fossero rapporti come tutti gli altri, rapporti alla pari. Senza obblighi e vincoli, fondati sulla scelta e sul rispetto libero».
Lo stesso rispetto che si prova per i maestri e i modelli letterari, col diritto di amarli, abbandonarli e magari riprenderli. «I miei gusti letterari – racconta Raimo – sono cambiati nel tempo. Ho molto amato Camus, Fitzgerald, Philip Roth, Ingebor Bachman. Oggi mi affascinano le narrazioni ibride e molto meno i romanzi fondati sulla trama. Amo le opere, non solo letterarie, che ragionano sul linguaggio e i suoi meccanismi, che affrontano questioni sul mezzo». Anche Veronica ha reso ibrida la scrittura con altre esperienze creative: la traduzione, sempre in ambito letterario, e il cinema, in collaborazione col regista Marco Bellocchio per il film Bella addormentata. Esperienze che, dice, le hanno insegnato a sparire. «In modi diversi e analoghi, cinema e traduzione mi hanno insegnato a mettermi al servizio. È una palestra di condivisione, un buon esercizio per il proprio ego. Il mio non è grande, credo: non sono gelosa di quello che scrivo, mi piace confrontarmi con persone di cui mi fido. Le loro obiezioni e resistenze mi aiutano a capire ciò a cui tengo veramente».
Ma quello della condivisione non è l’unico rituale a cui è legata. «Mi piace scrivere nei bar, nei luoghi affollati, e per niente nel silenzio e in solitudine. Penso sia per provare un senso di realtà, di vita». La stessa vita che spesso, nei romanzi di Raimo, è guardata attraverso la lente dell’ironia e lambita dal sentimento della noia. La scrittrice accenna un sorriso e chiarisce il concetto. «Da buona discepola degli esistenzialisti, penso che la noia sia la condizione umana per eccellenza. Tutto il fare, il gran darsi da fare che caratterizza le nostre vite, è una reazione anche troppo accanita. Forse sarebbe meglio solcarla, la noia, lasciarsi andare… Quanto all’ironia, è un modo di affrontare l’assurdo. Di disinnescare l’enfasi e la retorica. O magari è solo una forma di disperazione».
Ride, adesso. Quando le chiedo come l’ha cambiata la scrittura, dell’ironia mi dà un saggio pratico. «La scrittura mi ha portato sicurezza, anche in termini economici. Mi ha spinto – per ragioni collaterali, di rappresentanza dei miei libri – a forzare certi miei limiti, a superare certe mie idiosincrasie, come il fastidio a espormi. Ma sarei felice se tutto questo non fosse necessario. Non ho l’assillo del successo e vivo la scrittura come espressione. Non sento la responsabilità di suggerire idee o visioni. È bello che i lettori trovino nei miei libri significati molteplici – e spesso ulteriori, imprevisti – ma questo riguarda loro, non me. I libri sono una possibilità, ma non so se sarò ancora capace di scrivere domani, e se ne avrò voglia. Alla scrittura chiedo solo il supremo affrancamento. Tempo libero, per non fare nulla».
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