Ave Vasi.
Pensionata, vive a Rieti. Nel tempo libero scrive, legge, ascolta musica e visita opere d’arte. Partecipa al Concorso 50&Più da diversi anni; nel 2009, 2010, 2011 e 2018 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa.
Giudizio della Giuria
Una piccola storia italiana La scoperta della grande città nel dopoguerra con le grandi strade, i palazzi, i negozi, il vociare, l’andirivieni della gente che disorienta i due protagonisti, figli di emigranti, che si sono trasferiti dai nonni metropolitani. E la divertente scoperta di una piccola trasgressione erotica del nonno (subito perdonata) che è un po’ lo specchio dell’ armonia a volte da rattoppare nella vita familiare.
L’opera è interpretata e adattata da Fiorella Magrin
Simile ad un drago, seppur acciaccato, ma ancora temibile, appariva ai nostri occhi infantili, la vetusta corriera, dal motore scricchiolante, che lasciava dietro di sé uno sbuffo di vapore grigio nerastro.
Seduti intimoriti nei consunti sedili dell’animale-corriera, tra il fiasco impagliato, pieno d’acqua e la sacca dei panini, come ci aveva sistemato nostra madre, io e mio fratello, fissavamo, da dietro il finestrino, la sua figura rimpicciolirsi sempre di più, fino a scomparire dalla nostra visuale mentre, con fierezza, lottavamo per non abbandonarci al pianto e ai singhiozzi. “Ormai”, ci avevano detto i nostri genitori, “Siete grandi per andare a Roma da soli”. Mio fratello, di dieci anni, tenendomi stretta la mano, eseguiva diligentemente le raccomandazioni di babbo, sul senso di responsabilità e tutela nei miei confronti, in più, con i piedi poggiati sulla piccola valigia marrone, vigilava sul prezioso contenuto. A dire il vero, la valigetta di un indistinguibile colore, usurata, ammaccata, tendeva ad aprirsi spontaneamente. Il grezzo spago che l’avvolgeva, antesignano di future sofisticate chiusure, tutelava una forma di cacio stagionato, da portare a nonno e un nostro modesto vestiario di ricambio.
Tra poco avrei compiuto otto anni. Presto, mi resi conto che, la “Paura”, avvertita dal distacco dalle mie abituali sicurezze, insensibile alla differenza anagrafica tra fratelli, aveva uguagliato i nostri reciproci timori, di conseguenza nessun conforto o rassicurazione potevo trarre dall’anzianità, per questa avventura verso l’ignoto.
Facendoci coraggio decidemmo di scrutare l’interno del mezzo ei suoi passeggeri. Un forte odore maleodorante saturava il vano dell’abitato. Confusamente intravedemmo dei corpi rannicchiati, rattrappiti in scomode posizione, assopiti o dormienti con le teste reclinate sui sedili, le bocche semiaperte. Sedute più avanti, altre corporature femminili, con fazzolettoni di grezzo cotone in testa, nei piedi vecchie scarpe sformate, in grembo grossi fagotti di stoffa. L’effetto di quelle visioni, poco comprensibile per l’oscurità, vennero all’istante rielaborate, dalla nostra fantasia e avallate da ataviche credenze popolari, nella personificazione di creature magiche e minacciose, raccapriccianti streghe, dai volti terrorizzanti delle nostre paure. Spaventati e sentendoci in pericolo, trovammo conforto nell’abbracciarci stretti, stretti, chiudendo gli occhi, convinti così facendo, di passare inosservati.
Uno scrollone vigoroso ci destò nel pieno dei sogni agitati, l’autista bruscamente ci disse di scendere. Il bus vuoto era fermo da un lato della strada. Intorpiditi e assonnati, accecati dalla viva luce del giorno, sentivamo con piacere il calore del sole riscaldarci le gambe magre, infreddolite, coperte solo dai calzoncini corti e dai calzettoni di grezzo cotone. Persone riunite, ferme in una zona assolata ci sollecitavano, gesticolando di unirsi a loro. Avvicinandoci, con grande sorpresa scoprimmo che, il giorno aveva dissolto le nostre visionarie paure nei confronti dei temuti compagni di viaggio, mostrandoceli per quello che erano: semplice, generosa gente. Con la bocca piena, masticando voracemente il cibo, generosamente offerto dalle stesse persone, inteneriti dalla nostra giovane età, ci venne spontaneo raccontargli il motivo del nostro viaggiare da soli. I nostri genitori, in mancanza di altre possibilità lavorative nel territorio, per necessità, emigravano all’estero. Non potendoci portare con loro, affrontavamo il viaggio per andare a stare con i nonni. Giunti a Roma, i passeggeri, frettolosamente, dopo averci salutato calorosamente, si dispersero. Rimasti soli, in attesa, vicino alla corriera ormai vuota, fiduciosi aspettavamo di vedere tra i passanti un volto familiare, che tardava ad arrivare.
Provenienti da un tranquillo ambiente rurale, impoverito, arretrato, abituati al passaggio di malmessi carri trainati dai muli, l’impatto con l’estranea città, le grandi strade, i palazzi, i negozi, il vociare, l’andirivieni della gente ci disorientò. Grande fu la meraviglia, alla vista di un allungato, veicolo verde scuro, con tante ruote, che emetteva uno scampanellio strano e insistente, contenente nel suo interno, tante persone, tra queste si materializzò nonno. Nonno, sorridendo corse verso di noi, che avevamo ancora la bocca e gli occhi spalancati per lo stupore.
La casa dei nonni situata al quarto piano di un imponente palazzo a Piazza Vittorio, costruito nell’ottocento e così rimasto. Le stanze dell’abitazione conservavano sulle pareti, in parte, la tinteggiatura originale rossa che lasciava intravedere scolorite rimanenze di ornamentali geometrie. Un modesto ed essenziale mobilio arredava le camere, come scatole cinesi erano l’una il proseguo dell’altra. Dal balconcino minuscolo si poteva osservare Piazza Vittorio, con il porticato che circondava la piazza. Al centro del piazzale miriadi di svariate bancarelle formavano il grande mercato. Dagli Americani e dai rottami bellici proveniva la mercanzia più disparata, accatastata sui banchi, ammassata per terra, nei sacchi, dove proveniva il forte e acro odore di tabacco riciclato dai mozziconi di sigarette. Un insieme di brulicante umanità confusa, malconcia, povera, magra, bisognosa di tutto, si aggirava nel chiasso e caos del mercato.
Nonna per festeggiarci aveva preparato i “rigatoni con la pajata”, quel sapore di pasta ci sembrò di una speciale bontà. I giorni passavano tranquilli e lieti. Introdotti dai cugini e loro amichetti, rapidamente, ci orientammo tra chiese, piazze, vicoli, strade, diventati scenari dei nostri movimentati giochi. Gli scalini della chiesa, vicina alla casa dei nonni, era il punto di ritrovo serale. Nuccia, l’amica più grande dei nostri cugini, libera dal lavoro di tuttofare, nella drogheria dello zio, si univa al gruppo. Bruttina, sgraziata, la giovane, vantava anche il primato d’essere una grande pettegola. Indossava sopra il vestito liso e scolorito un grembiulone a quadretti, dall’enorme tasche, dove nascondeva le caramelle, “sgraffignate”, diceva lei, dai ricolmi cassetti del negozio. La dolcezza di quelle caramelle sconosciute, strideva con il maldicente e linguacciuto ciarlare di Nina, sugli abitanti del rione.
La domenica, il nostro giorno preferito, nonno ci portava a “zonzo” senza una meta, per le strade di Roma. Percorrendo le zone di Trastevere e i limitrofi vicoli, nonno, diventava silenzioso, lo sguardo doloroso andava alle case dalle finestre chiuse, in cerca di volti conosciuti di amici, di gente innocente non più tornata. Scuotendo la testa, sussurrava confuso: “Che tempi di totale smarrimento verso tutti: familiari, amici, conoscenti!”. Poi impercettibilmente aggiungeva: “Perché del prevalere dell’odio, del disprezzo, sulla solidarietà, fratellanza, amore verso gli altri!”. Allora non capivamo, il significato di quelle parole, o la tristezza suscitata da quei luoghi. Insistenti lo tiravamo per la giacca verso il chiosco del venditore di gratta-checche, la bevanda ghiacciata che ci deliziava.
Quando arrivavano le rare lettere dei nostri genitori, la sera dopo cena, con solennità il padre del padre le leggeva, soffermandosi pensieroso sui dettagli della vita del figlio. In quelle lettere ricorrevano parole sconosciute per noi, come: ricostruzione, riedificazione, ripristino, ridare un volto a città devastate. Le brevi frasi rivolte a noi, ci sprofondavano in un mare di nostalgia dagli affetti, dalla casa lontana.
Il sereno andamento di quel soggiorno dai nonni, improvvisamente, fu scosso da un fatto oscuro. Una sera, un avvenimento incomprensibile alterò la tranquillità del riposo notturno. Le grida ci svegliarono a tarda ora, provenienti dalla camera da letto dei nonni. Nonna, in camicia da notte, scarmigliata, ai piedi del letto, urlava in dialetto: “Eeeehh mutanneeee, non ce soo iii muutanndoniii!”, ripetendo più volte le stesse parole rivolte a nonno. Impassibile, il marito girato su un fianco, fingeva di dormire.
Nascosti nel vano della porta, sbirciavamo nella loro stanza per capire il motivo di tanto strepitio. In fondo, pensammo, non era il caso di fare tanto scalpore per un paio di mutandoni di cotone usurati e rattoppati più volte.
La mattina seguente, il volto cupo di nonna e il suo insolito mutismo, ci convinse ad abbandonare velocemente la casa. Rifugiati sui gradini della chiesa, prontamente, si materializzò Nuccia, smaniosa di metterci al corrente sugli ultimi avvenimenti. In compagnia di altri amici, nonno era stato visto uscire, a notte alta, cantando e ridendo, dalla casa della “Sora” Augusta, la direttrice delle vistose signore “dalla porta sempre chiusa”.
La nostra ingenuità, in materia di sesso, non ci consentì di comprendere cosa ci fosse di sconveniente nel comportamento del nostro avo e il nesso con lo smarrimento dei suoi mutandoni. Innocenti domande al riguardo, vennero ignorate dallo sdegnato sguardo di sufficienza di Nuccia, seguito da una risatina maliziosa, che rese ancora più impenetrabile la nostra comprensione sugli avvenimenti.
La sera, seduti a tavola, la stanza, sembrava avvolta in un silenzio innaturale, pesante. Intimoriti, imbarazzati, dall’anomala situazione evitavamo qualsiasi gesto o parola. Nonna, come tutte le sere, mise la zuppiera al centro della tavola. In un serrato mutismo riempì, cosa insolita, prima i nostri piatti con gesti lenti e grevi, tralasciando di riempire quello del coniuge. Poi, si sedette pensierosa, guardando, fissamente, dentro il contenuto del suo piatto pieno. Stupiti dal comportamento singolare ci scambiavamo, tra fratelli, titubanti e fugaci sguardi interrogativi, senza osare parlare o mangiare. Sbigottiti dall’audacia, per quel gesto, volutamente, irrispettoso per le consuetudini di quel tempo. Con gli occhi bassi sulla calda minestra, dall’odore invitante, allarmati attendevamo l’inevitabile reazione contrariata e irritata del coniuge. Un silenzio penoso continuava ad avvolgeva la stanza e tutti noi.
Mesto, a testa bassa, tacendo, il coniuge aspettò di essere servito. Consapevole di dover rispettare, con il silenzio delle parole, il dolore causato, in un momento di debolezza, alla donna che amava da anni. Impensierito e angustiato, inoltre, dalla possibile perdita dell’amore e stima di sua moglie, in conseguenza del suo pentito agire. In quel silenzio sconosciuto e temuto, trasparivano, nei loro visi corrucciati, minacciose le insidie dei loro turbamenti emotivi. Parole non dette, taciute si aggrovigliavano mentalmente, indurendogli visibilmente i lineamenti. Parole rancorose, aspre, rabbiose, dolenti aleggiavano, rimbombanti e silenziose, nella stanza, mischiandosi all’aroma del cibo. Nonna, per un lasso di tempo, che a noi parve interminabile, in quel silenzio pieno di significato per lei, rimase immobile al suo posto, arrovellata nei suoi dubbi. Con lo sguardo fisso sulla minestra, come se la vedesse, per la prima volta, nella molteplicità di elementi diversi, che messi insieme con accortezza e equilibrio ne costituivano gusto e bontà.
Sorprendendoci, improvvisamente, si alzò in piedi, risoluta prese il mestolo nella mano, esitando lo strinse nelle dita, tenendolo sospeso sulla zuppiera. I nostri occhi atterriti erano galvanizzati dalla sua mano, temendo una reazione fulminea e violenta. Lei, adagio, immerse il mestolo nella zuppiera. Un sorriso, dolce, inaspettato, apparve sulle sue labbra poi, decisa lo riempì di minestra.
Nonno, come se le avesse letto nel pensiero, insolitamente, le porse, avvicinandole il piatto vuoto con umiltà, e deve aver pensato, che nella vita il bisogno di cibo è pari al bisogno d’amore. Il mestolo pieno di minestra piano, piano colmò quel piatto, in attesa d’essere riempito di una minestra, fatta di una sostanza arcana e misteriosa: l’amore. Gli occhi dei coniugi, che avevano visto i guasti dell’odio della guerra, si intesero senza parole, guardando nell’altro la profondità del loro affetto.