Walter Vallesi. Consulente di marketing e comunicazione aziendale per Enti pubblici e privati ad indirizzo turistico/culturale. Ideatore di progetti per la conoscenza del mare con l’integrazione dei diversamente abili. Skipper d’altura, scrittore di racconti brevi, romanzi e opere teatrali. Al Concorso 50&Più nel 2017 vince la Farfalla d’oro per la poesia e nel 2018 la Farfalla d’oro per la prosa. Vive a Porto San Giorgio (Fm).
Al primo caldo asciutto di maggio del ’49, Lavinia era lungo l’arenile del mare Adriatico a poca distanza della sua villa di Capodarco a nord di Porto San Giorgio. Sedeva sulla poltrona vintage a farfalla per godersi in solitudine la lettura del libro sotto l’ombrellone bianco, sedia da regista bianca, abito di lino bianco e cappello panama bianco. Come nelle immagini in “Morte a Venezia” di Thomas Mann. Lavinia aveva scelto di rileggere “Gli Indifferenti” di Moravia perché si sentiva di appartenere più alla borghesia convenzionale che alla nobile discendenza dai suoi avi. L’alone di scandalo diffuso nella società borghese per l’indifferenza ai cliché morali del nuovo mondo, la stimolava a fuggire dalla noia di una vita da crocerossina e dama di carità. Aveva quarant’anni e il fatto di essere discendente da un casato principesco del 1600 e da un cardinale segretario del Papa Innocenzo X, le rendeva difficoltoso sentirsi libera di vivere tra virtù e vizi. Dalla villa le arrivò il fragore della campana agitata dalla governante per annunciare l’ora di cena quindi si alzò a malavoglia, abbassò fino alle caviglie la veste di lino che avrebbe dovuto fare da scudo al suo corpo illibato e salì lungo il viottolo ombreggiato dai centenari pini romani. A metà percorso si fermò per orecchiare il suono del flauto come fosse una serenata d’amore che all’imbrunire le arrivava da oltre le siepi di lauro. La contessa Andreina aveva ospitato Rodolfo, professore al conservatorio di musica, il nipote più amato. Rodolfo e Lavinia erano cresciuti insieme e lui, pur essendo più giovane di dodici anni e sposato da poco, provava per lei una forte empatia, soprattutto fisica. Lavinia corse al secondo piano della villa dove aveva scelto di vivere in autonomia e giunse a cena ben truccata e con un abito affascinante. Incrociò lo sguardo di Rodolfo per un tempo indefinibile mentre i loro sorrisi tradivano una certa complicità. Ogni volta che questo accadeva la assaliva un forte senso di pudore consapevole di essere caduta nel peccato. Tutto ciò le ricordava la sorte di sua nonna Esmeralda trovata cadavere lungo il greto del fiume senza mai scoprire l’assassino. Lei ne rimase terrorizzata tanto da farsi predire il futuro da una famosa veggente che le intimò di vivere una vita morigerata per non subire la stessa sorte. Lavinia e Rodolfo erano cresciuti insieme con la cultura fascista che l’aveva allontanata dall’idea del matrimonio perché gli uomini del tempo per natura erano ritenuti adulteri. “Oltretutto si vantano pubblicamente delle loro prodezze sessuali”, soleva dire alle amiche. Gli anni scorrevano e insieme alle pulsioni d’amore, cresceva in lei il desiderio di scoprire chi fosse l’esecutore della serenata. A partire dal mese di maggio era solita rincasare all’imbrunire dopo aver frequentato alcune famiglie povere per dare assistenza cristiana e altre, tra le più stimate in paese, per un tempo di conversazione. Nella penombra del vialetto il suono melodioso del flauto alimentava durante la notte le fantasie erotiche e il suo desiderio d’amore. Poi, una sera di fine maggio, il fato cercò di esaudirla. Il mattino seguente un contadino si presentò prestissimo in villa urlando: “Nel campo di grano dietro la serra di fiori giace un cadavere!”. Rodolfo era ospite per tenere una lezione privata ai due figli del Fattore. Insieme alla zia Andreina era in attesa che Lavinia scendesse dalla sua stanza per le lodi mattutine e la colazione quindi corse sul posto e insieme al contadino scoprirono il corpo esamine di Lavinia cosparso di lividi e ferite profonde su varie parti del corpo. Il grano affondato presupponeva una colluttazione e la biancheria intima della donna strappata a brandelli faceva pensare a una violenza carnale. Arrivarono i carabinieri per una prima conclusione:
“L’assassino, appostato dietro un cespuglio, ha atteso la vittima e si è lanciato su di lei colpendola alla testa per poi approfittarsene. Non sono state trovate impronte di scarpe quindi si può supporre che l’assassino si sia fasciato i piedi. Si tratta di un delitto di violenza carnale oppure il mostro ha voluto crearsi un alibi?”. Il giorno appresso si presentò in caserma un giovane trasandato e sudicio come un barbone. Era di bell’aspetto e, con parlare forbito, diceva e non diceva. Era sprovvisto di documenti e si autoaccusò dello stupro della nobildonna e quindi del delitto. Una volta tradotto in carcere gli fu trovata addosso la camicia lacera e chiazzata di sangue. Condotto sul luogo del delitto ricostruì fin nei minimi particolari le fasi del femminicidio, dichiarò di non conoscere la vittima ma di averla fermata per chiederle qualcosa da mangiare e quando la donna impaurita gli negò l’aiuto, la spinse a terra percuotendola. Per soffocare le sue urla incessanti la colpì ripetutamente alla testa con un mattone trovato a caso poi la trascinò in mezzo al grano e andò a lavarsi nella vasca accanto alla serra. Quando ritornò presso la disgraziata che ancora rantolava, tentò di possederla ma si allontanò terrorizzato per l’ansia che provò a causa del suono angosciante di un flauto che improvvisamente giunse da dietro la siepe. Con quella confessione il vagabondo volle far credere che fosse lui l’assassino ma non convinse il comandante della stazione dei carabinieri. Si dichiarò nativo di Civitanova Marche, ma non era vero. Si autodefinì un criminale corrotto dai vizi, rapinatore e seduttore di minorenni. Disse che la vittima gli negò del cibo mentre ne aveva appresso. La vittima non fu derubata dei preziosi che indossava né di un involtino di carne che aveva comprato la sera stessa. Dunque, si era dinanzi a un mitomane. Ma come poteva conoscere i particolari del delitto senza averlo commesso? E se gli fosse stato commissionato da qualcuno interessato alla povera Lavinia? In seguito ad una perizia psichiatrica il giovane fu rilasciato e condotto all’ ospedale neurologico. Il caso rimase aperto ma nessuno poteva immaginare che Lavinia, tanto desiderosa di provare un rapporto carnale, avesse confidato i suoi desideri in un diario nascosto nella soffitta. Sulla pagina 30 Aprile aveva scritto: “Mia cara e vecchia Lavinia, è giunta l’ora di lasciarsi andare senza remore tra le braccia di questo amore proibito che da tempo ti lusinga nei sensi e nell’anima. Cogli pure l’attimo fuggente certa di non avere rimpianti”. In quelle parole non c’era più il pudore di sempre bensì il desiderio di comunicare al mondo la verità. Di sicuro ne aveva confidato l’esistenza a colui che amava e che sentendosi compromesso, fece scomparire la pagina del 30 Aprile sulla quale Lavinia aveva scritto il nome decidendo inconsapevolmente la sua tragica fine. Da allora sono trascorsi oltre settant’ anni e nessuno ricorda più perché e chi assassinò la contessa Lavinia che alla nobiltà non avrebbe mai voluto appartenere. Una leggenda del posto consiglia di non passeggiare all’imbrunire lungo il viottolo che dal mare porta alla villa in collina. Soprattutto alla fine di Maggio perché, in quella notte del ’49, Lavinia aveva deciso di cedere il suo cuore e la sua illibatezza a chi credeva l’amasse. Ancora oggi, talvolta si avverte nell’aria il suono di un flauto che diffonde la melodia “Sogno d’amore” di Listz. Quella che un giovane nobiluomo, rinomato professore di musica, amava insegnare ai suoi allievi. Alla fine di Agosto del ’49, esattamente tre mesi dopo la tragica fine della contessa Lavinia, sulle cronache locali di Porto San Giorgio e di Fermo apparve una notizia sconvolgente, apparentemente senza una spiegazione: “Nobiluomo, rinomato professore di musica, trovato cadavere impiccato nella serra della Villa …….. Un nuovo mistero si aggiunge al delitto …………… Si tratta di suicidio oppure omicidio? Riaperto il caso della nobildonna…”