«Carosello è stato una punta di diamante dello spettacolo. Ha inventato un modo diverso di vivere e fatto da leva la cambiamento sociale»
di Barbara Di Sarno
Vito Molinari è stato uno dei creatori della televisione italiana. Ha debuttato come regista il 3 gennaio 1954, in occasione del programma inaugurale della Rai, e da allora ha curato la regia di oltre duemila produzioni, ne è stato autore ed è diventato anche scrittore e narratore di quel mondo lì. Considerato a pieno titolo uno dei padri fondatori dello spettacolo leggero – rivista, varietà, balletti, operetta – ma anche prosa e sceneggiati, ci racconta, alla soglia dei 90 anni, la sua intensa carriera.
Il suo sogno da giovane era il teatro ed è invece finito a fare televisione…
Io sono nato a Sestri Levante, ma mi sono trasferito ben presto a Genova dove ho cominciato a recitare in compagnie dilettantesche. Una sera – quando avevo 17 anni – mi vide Gilberto Govi che mi offrì di recitare nella sua compagnia come attore giovane. Allora si diventava maggiorenni a 21 anni. Dovetti chiedere il permesso ai miei genitori che non acconsentirono. Govi mi disse: «Sarà per un’altra volta». Era il 1947 e la “prossima volta” sarebbe arrivata dopo quasi 40 anni quando, nel 1986, feci le sette puntate di Tutto Govi, una trasmissione dedicata al celebre attore comico genovese che univa filmati di suoi spettacoli a materiale giornalistico. Quando poi mi iscrissi all’Università di Genova, fondai con il professor Della Corte il Cut – Centro Universitario Teatrale -, e qui ci inventammo il ciclo de I grandi processi dell’antichità, di cui ero regista e attore. Una sera venne a vedere le Catilinarie Sergio Pugliese, che era stato incaricato dalla Rai di fondare la televisione. Mi convocò il giorno dopo per un colloquio. Mi chiese se mi sarebbe piaciuto fare la televisione. Non sapevo bene cosa fosse ma risposi che mi sarebbe piaciuto fare il presentatore. Pugliese con il suo vocione mi bloccò subito dicendomi: «Molinari, ma con quel naso! I presentatori sono tutti belli, biondi e possibilmente con gli occhi azzurri. Lei sa fare delle belle regie e le farò fare il regista». E così nel 1953 sono andato a Milano, dove ho partecipato al periodo sperimentale della televisione di cui, il 3 gennaio 1954, diressi la trasmissione augurale.
Che tipo di televisione era quella degli esordi?
Pugliese lanciò lo slogan della televisione come una finestra aperta sul mondo. Improvvisamente nelle case, nei bar arrivarono le immagini di Londra e di New York. Gli italiani iniziarono a capire il mondo attraverso questo mezzo di comunicazione che, a detta di molti, non sarebbe durato più di qualche anno. A me e ai miei colleghi non ha insegnato niente nessuno. C’erano queste enormi telecamere che ogni tanto si rompevano anche. Erano davvero grandi e ci volevano due o tre operatori per muoverne una. Ci mettevamo, sera dopo sera, a inventare un linguaggio di cui non c’erano né regole né sintassi. Cercavamo lo specifico televisivo, un qualcosa che potesse differenziare la Tv dal cinema o dal teatro. Pensai alla rivista televisiva e così, con le prime trasmissioni come Guarda chi si vede e Ti conosco mascherina, abbiamo dato il via a questo nuovo filone. Con Un due tre e la coppia Tognazzi e Vianello abbiamo pensato poi ad una Tv autoreferenziale, che prendesse in giro i programmi che andavano in onda. Da lì ho fatto L’amico del Giaguaro e le prime domeniche pomeriggio, dove ho lanciato Paolo Villaggio che già conoscevo ai tempi dell’università. Quando abbiamo realizzato che c’era bisogno di nuovi personaggi in Tv, abbiamo pensato a Cochi e Renato, Ric e Gian, Oreste Lionello e ai tanti comici e soubrette che si sono succeduti nel tempo. Proprio a loro ho dedicato due miei libri, Le mie soubrette e I miei grandi comici.
Ci può raccontare degli aneddoti di quel periodo?
Ricordo Wanda Osiris che entrava in scena a cavallo di un cammello, con una persona in abiti arabeggianti a seguire, che con una scopetta spazzava gli escrementi che l’animale lasciava. Una sera questa persona non è entrata in scena, il cammello ha fatto quel che doveva fare, il pubblico ha iniziato a ridere, la Osiris si è spaventata, ha pensato di aver stonato, ha guardato cos’era successo e ha improvvisato: «Che entri lo stronziere!». La Paola Borboni invece amava molto mangiare la cucina russa e, dopo qualche bicchierino di vodka, iniziava a raccontare aneddoti divertentissimi della sua vita. Una sera raccontò di un litigio con Rascel, che aveva davvero un carattere molto duro e che l’apostrofò dicendole: «Lei è solo un’attrice brutta e vecchia». E lei: «Sì, ma io sono stata bella e giovane, lei alto non lo è stato mai!». Tra i comici invece il primo con cui ho lavorato è stato Macario, che ha inventato la rivista. Tognazzi e Vianello erano i ragazzacci della televisione italiana. Dario Fo era un genio assoluto. Walter Chiari, geniale sì, ma ingestibile e ingovernabile. Non voleva fare le prove, dovevo corrergli dietro. Se si dovesse dare un Nobel alla comicità, lo darei a lui.
E dopo Carosello tutti a nanna è uno dei suoi ultimi lavori letterari. Cosa ricorda di quel periodo?
Carosello è stato una punta di diamante dello spettacolo per vent’anni. Ha inventato un modo diverso di vivere e fatto da leva a un cambiamento sociale che comunque ci sarebbe stato, ma magari in tempi più dilatati di quel ventennio che fu davvero straordinario.
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