«Provate a digitare su un motore di ricerca la parola “invecchiamento” accostandole termini come “opportunità” o “sfida”; poi, ritentate abbinando “invecchiamento” con termini come “crisi” o “dramma”. Vi accorgere che i risultati in negativo sono più del doppio». A proporci l’esperimento è Nicola Palmarini, direttore del Nica – National Innovation Centre for Aging -, l’istituto di ricerca britannico che si occupa di studi legati all’invecchiamento o – come preferisce dire lui – “alle fasi della vita”. «Dall’esercizio che propongo si comprende quanto il tema dell’invecchiamento sia materia giudicata non come opportunità, strumento di sviluppo, innovazione, equità e ritorno economico quanto piuttosto come peso, zavorra, temi collegati a fattori sanitari o pensionistici. L’emergenza Covid ha fatto esplodere il tema dell’ageismo che era, però, sotto gli occhi di tutti da anni».
La pandemia da Covid-19 cosa ci sta dicendo?
Ha fatto emergere il tema della sacrificabilità degli anziani. Un costrutto primordiale che lega l’età all’aspettativa di vita. L’unico valore per cui si ritenga una persona più o meno sacrificabile è l’età. Ma l’assunto di base è che, siccome sei vecchio – e allora vulnerabile – sei sacrificabile. Un elemento balzato alla cronaca per via del Covid e poi giustamente ritrattato. Ma ciò che resta è l’inconsapevolezza di essere in molti affetti da ageismo, che non è nient’altro che una forma di discriminazione nei confronti di chi è in là con gli anni.
Un’affezione, questa, dalla quale però si può guarire. Non crede?
Assolutamente, anche se la dice lunga il fatto che, nella nostra lingua, non esista nemmeno il termine per definire questa forma di discriminazione. È il segno dell’assoluta inconsapevolezza del problema: per affrontarlo, occorre capire di cosa stiamo parlando. E se diciamo ageismo a molti, legittimamente, può sfuggire il senso.
Nel Regno Unito è diverso?
Sono quasi quindici anni che mi occupo del tema dell’innovazione legata all’invecchiamento e, dallo scorso anno, dirigo il Centro britannico per lo studio sull’invecchiamento, essendomi occupato prima di intelligenza artificiale applicata al tema. È un istituto del Governo ospitato all’interno dell’Università di Newcastle, nel nord-est dell’Inghilterra, la cui esistenza stessa testimonia sicuramente l’interesse verso il tema. Per di più, il Regno Unito ha posto l’invecchiamento tra i pilastri del proprio programma di sviluppo cui si uniscono fondi e ricerca sull’intelligenza artificiale, le auto a guida autonoma e il climate change, il cosiddetto cambiamento climatico.
Il che significa che in UK si invecchia meglio che dalle nostre parti?
Penso che in Italia si invecchi meglio che in molti altri posti, compresa la Gran Bretagna. Dico però che è come se stessimo a guardare alla finestra un fenomeno che ci riguarda, una competenza che noi abbiamo, una conoscenza che fa parte del Dna del nostro Paese: guardiamo altri che se ne occupano. Come se la ricerca in quel campo non ci interessasse.
Eppure siamo il secondo Paese, dopo il Giappone, nella scala della longevità mondiale.
Abbiamo una cultura e una conoscenza delle dinamiche dell’invecchiamento che pochissimi altri hanno. Il tema dell’aging è sul nostro tavolo da sempre. Da un lato perché stavamo invecchiando più degli altri e, dall’altro, perché la nostra considerazione delle dinamiche sociali dell’invecchiamento fa parte della cultura stessa del nostro Paese. Eppure stentiamo ad occuparcene in maniera sistematica.
Quali sono le ragioni?
Abbiamo sempre cercato di apparire come la Nazione più giovane – siamo quelli col mito della California, delle startup -, ma si può fare innovazione con le startup occupandosi anche di persone anziane. Anzi, forse sarebbe più sensato dimostrare che c’è un’intelligenza nello sfruttare quello che conosciamo. Invece si insegue un mito giovanilistico.
Nel nostro Paese, si fa ben poco per adeguare le politiche all’invecchiamento della popolazione, se non spostare in avanti l’età pensionabile.
E invece ci sarebbe molto altro da fare. Bisogna far comprendere che la pensione non è un traguardo, ma una fase della vita. Ed è impensabile che la propria identità il giorno del congedo dal lavoro sia quella di un individuo di mercato e il giorno dopo si finisca in un indistinto calderone del “siete tutti dei pensionati”, come se avessimo tutti le stesse esigenze. Dal punto di vista demografico, ad esempio, sono ora i boomers che stanno entrando in questa fase della vita. Ma la poliedricità di colore che hanno i boomers è veramente difficile da definire e inserire in una massa informe. Come puoi raccogliere chi ha inventato il Gps o tecnologie preziosissime che usiamo oggi in una schiera indistinta di pensionati? Il loro sapere va valorizzato.
Immagina una permanenza sul mercato del lavoro? E non creerebbe una collisione con la necessità di ingresso dei giovani nelle aziende?
Non c’è studio al mondo che dimostri la dinamica per cui se esce un anziano dal mondo del lavoro ne entra uno giovane. Andrebbe invece fatto un lavoro per cui la fantastica competenza che tu accumuli nella tua esperienza di vita venga rimessa in circolo, innestando sviluppo utile anche alle nuove generazioni. Lavorare in età avanzata significa migliorare il proprio benessere psicofisico perché ci si sente parte di un progetto, si generano endorfine, si dà un contributo alla società.
In quale maniera giovani e meno possono convivere nel mondo del lavoro?
Dando alle imprese gli strumenti per abilitare la propria forza lavoro che invecchia a diventare progressivamente qualcos’altro, unendo le generazioni, altrimenti non si costruisce nessun trampolino verso il futuro. Si possono ideare piattaforme – alcune già esistono – che raggruppino persone fuori dal mercato del lavoro per via dell’età, nelle quali possano fare consulenza di alto livello dove l’esperienza viene valutata in base a età, saggezza, conoscenza. Una competenza che può essere comprata da un’organizzazione che ha bisogno di un esperto su una materia, ma anche da piccole società nascenti che hanno magari il genio di costruire una parte innovativa, ma mancano dell’esperienza di chi saprebbe metterla in un contesto economico solido, il che richiede una certa conoscenza del mercato del lavoro. Conoscenza che sicuramente i senior hanno.
La perdita di un contributo cruciale
Il Covid-19 ha mietuto molte vittime: spesso tra i più anziani. «Stiamo perdendo una parte importante di economia che in qualche modo regge il Paese – ci ha detto Nicola Palmarini -. Continuiamo a dimenticare il contributo cruciale dei nonni alla vita delle famiglie italiane: dal punto di vista economico e sociale. Tanto più oggi che siamo costretti a tornare a vivere con figli piccoli in situazioni complicate, ci rendiamo conto di quanto ci manchi quel pezzo di supporto che, in realtà, aiuta la gran parte del Paese specie per chi, non potendosi permettere l’aiuto di una babysitter, doveva ricorrere alla rete familiare. È utile contare anche questo, non solo contagi e morti. Ci fa comprendere con quanta faciloneria pensiamo di poter mettere da parte chi è anziano».
© Riproduzione riservata