Ho letto La vita lunga delle donne di Marina Piazza (Solferino editore) due volte: una volta avidamente, come leggo tutto ciò che riguarda il mio tema preferito, la “nuova vecchiaia”, come la chiamano, il “Terzo Tempo” come preferiamo chiamarla noi, chi legge e chi scrive questa pagina. L’ho letto avidamente, cercando conforto per la battaglia culturale che sto portando avanti da anni, una specie di disinfestazione radicale da quegli sciami di stereotipi che bocciano una parte della vita senza nemmeno aver provato a scoprirla, a leggerla, a ridefinirla. La seconda volta l’ho letto adagio, cercandogli l’anima.
La vita lunga delle donne non è un saggio, non ha tesi da dimostrare. Non è un manuale consolatorio, scritto col nobile scopo di sintonizzare le anziane su un think positive che ormai puzza di consumismo: se non siete giovani non preoccupatevi, potete sempre fingervi giovani. Magari usando questa e quella crema, cavalcando, pedalando, facendo sesso, ispirandovi a Jane Fonda eccetera eccetera.
La vita lunga delle donne è il frutto dell’applicazione al tema dell’invecchiare di una straordinaria capacità di ascolto. Marina Piazza ascolta, chiede, stimola, confronta e riflette. Ha conversato dell’invecchiare, in tre anni, con 60 donne d’età compresa fra i 60 e i 78 anni. Con un obbiettivo: costruire una comunità di persone che, senza troppe reticenze, mettono in comune le loro paure, il loro progetti, i loro guadagni. Che si fidano le une delle altre, che vogliono imparare a vivere meglio il terzo tempo e perciò praticano l’attenzione e l’ascolto. Percepire, nominare, mettere in comune, politicizzare, sortirne insieme, ciascuna a modo suo ma con il valore aggiunto dell’elaborazione collettiva.
È un metodo che molte delle donne nate negli Anni ’40 e ’50 del secolo scorso hanno conosciuto da giovani, col femminismo.
Del resto Marina Piazza lo dice benissimo: «Cercavo di cogliere la peculiarità dell’incrocio tra le dinamiche del passaggio d’età e l’esperienza di una particolare generazione di donne».
Già, una particolare generazione di donne, una generazione di cui io faccio parte con migliaia di altre. Un “noi” che resiste anche se scomposto in migliaia di io. Ciascuno con una vita lunga dietro, tutta da decifrare, e una piccola vita davanti, tutta da inventare. Come invecchiano le donne che, fin da ragazzine, hanno rifiutato di subire una collocazione coatta nello scenario delle relazioni, di vestire i panni che avevano vestito le loro madri? Siamo state ventenni ribelli. Trentenni combattive. Cinquantenni consapevoli. Sessantenni pugnaci. Che vecchie vogliamo diventare? Che ottantenni saremo? Certo non abbiamo nessuna intenzione di scegliere la via della rimozione.
Le donne ascoltate da Marina sono donne intelligenti e strumentate. Si definiscono fragili, nominano le loro fragilità, ma non le usano per giustificare alcun tipo di rinuncia o pigrizia mentale. Le guardano in faccia e ci fanno i conti. Si tratta di fragilità fisiche soprattutto, perché, psichicamente, sono donne parecchio robuste, o quantomeno allenate a difendersi. C’è una cosa che le, ma forse dovrei dire che “ci”, ha unite tutte: la sorpresa.
Io non ho pensato ad altro che alla tragedia annunciata dell’invecchiare da quando avevo 20 anni, eppure quando sono diventata, oggettivamente, vecchia, ho provato un sentimento di stupore. Marina Piazza scrive che siamo una generazione fortunata. Ed è vero. Abbiamo tutto da inventare. Non ci sono mai stati questi 30 anni in più. Adesso ci sono. Come vogliamo sceneggiarli? Che cosa ci unisce, oltre al nostro bagaglio di donne che sanno pensare? Scrive Marina Piazza: «La prossimità della fine? Ciascuna per sé e la morte per tutte?».
Comunque sia siamo tante: 7 milioni di persone hanno più di 65 anni, oggi in Italia 4 milioni più di 75. Un milione e 200mila più di 85 e 17mila più di 100 anni. E la vita continua ad allungarsi.
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