Ambasciatore della canzone italiana nel mondo, il cantautore si è spento a ottant’anni. Vinse Sanremo nel 1980 e fu cinque volte secondo; nel 1990 partecipò in coppia con Ray Charles. Un addio a Toto Cutugno con un ritratto sul filo del ricordo di Leonardo Guzzo.
Un chicco di caffè, marrone e bombato. La Cinquecento della mia infanzia aveva le marce dure, poco fiato in salita e una voce di ferraglia instabile. Non aveva lo stereo, neanche a dirlo. Forse il posacenere.
La Tipo dei miei zii, quella sì aveva lo stereo. Nell’estate del 1988 ci girava costantemente una cassetta con le canzoni del Sanremo di quell’anno. Ci si era innamorati della spiaggia bassa di Capitello e si andava al mare lì, ogni mattina alle dieci. Due ore dopo si faceva la strada all’incontrario, dieci minuti fino a casa mia a Scario (in provincia di Salerno, ndr); altri dieci, o di più, per arrivare da loro in collina. La cassetta girava e io facevo la cosa più bella della mattinata. Salivo in ginocchio sul sedile posteriore, lo sguardo nel lunotto, e cantavo una ad una le canzoni di Sanremo.
Il mondo sfilava – lo inquadravo e subito si allontanava – e sfilavano le canzoni di Massimo Ranieri, Fausto Leali, Anna Oxa e tutti gli altri habitué del festival (ma c’erano pure Fiorella Mannoia, Tullio De Piscopo e Francesco Nuti). Avere nove anni era doping: con la voce bianca tutte le canzoni sembravano facili. Certe belle e certe brutte, una strana. Bella e strana. Come la voce che la cantava. Bassina per un bambino di nove anni. Provavi e ti veniva di cantarla come quello che la cantava davvero. Forzando la tonalità, a volte lievemente stonando, ma non sembrava ci fosse altra strada.
“Emozioni”, si chiamava la canzone. Non la mia preferita, ma le emozioni arrivavano. Parole a parte (una serie di suoni e rime, a nove anni), c’era qualcosa nella musica… La melodia, la sequenza armonica, la voce vibrante e sporca. Usciva da un tizio alto, signorile, chioma nera e leonina, faccia moresca anche se era cresciuto in Liguria. Uno timido, un po’ rigido, sulle sue, sussiegoso, inguaribilmente “nazional-popolare”. L’autore di un paio di clamorosi successi di Celentano; il cantautore de “L’italiano”, tra le cinque o sei canzoni nostrane più conosciute al mondo. Toto Cutugno: il nome era come un tam tam mediterraneo che mi faceva sorridere.
Quando, in un Sanremo di un paio di anni dopo, nienetemeno che Ray Charles si presentò a cantare una sua canzone, molti storsero il naso. Un giornalone scrisse “Dio salvi Ray Charles”, tanti critici notarono che The Genius aveva stravolto “Gli amori” (diventata “Good love gone bad”) per risollevarla. In questi giorni, mentre a Toto Cutugno diciamo addio, mi è capitato di ascoltare una vecchia intervista proprio di Ray Charles. Nel retropalco di Sanremo, alla domanda velenosa di un giornalista sull’improbabile accoppiata col “ruffiano nazional-popolare”, risponde secco e finale: “I don’t sing a song if I don’t like It”. “Non canto una canzone se non mi piace”.
Sotto la doccia, chissà, gli sarà partito pure un “Lasciatemi cantare con la chitarra in mano”.
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