Dal 2000 ad oggi progressi tecnologici, tensioni geopolitiche e crisi finanziarie hanno cambiato radicalmente il lavoro e l’economia. Marco Musella – professore di Economia politica all’Università Federico II di Napoli – ne analizza l’impatto presente e quello futuro
Dall’ascesa della “gig economy” alla precarizzazione del lavoro, dalla diffusione massiva delle tecnologie allo scoppio di conflitti destabilizzanti: gli ultimi venticinque anni sono stati anche questo. Una radicale trasformazione della nostra società – legata a doppio filo a quella mondiale – che ha modificato il nostro modo di lavorare e fare economia. Per Marco Musella, professore di Economia politica all’Università Federico II di Napoli, le sfide e le opportunità sono state deluse dalla mancanza o insufficienza di processi in grado di governare il cambiamento. Al di là dei conflitti e dell’insicurezza, sulla bilancia pesa certamente l’erosione delle reti di sicurezza sociale.
Professore, come ha influito la globalizzazione sull’economia e sul lavoro dal 2000 ad oggi? Cos’è cambiato in questo quarto di secolo?
Se non consideriamo il periodo precedente le guerre di questi ultimi anni, la globalizzazione ha certamente cambiato il mondo dell’economia e del lavoro. Questo perché ha modificato innanzitutto la stessa divisione e distribuzione internazionale del lavoro, spostando alcune produzioni da una parte all’altra del globo e costringendo paesi come il nostro a ridisegnare la propria posizione. Una tendenza che ha toccato tutti i settori produttivi, ovviamente. E purtroppo abbiamo anche assistito ad un’incapacità delle politiche di gestire questa transizione. Si sarebbero potuti accelerare i processi di ricollocamento della forza lavoro, facilitarli, così come ridisegnare la collocazione internazionale dell’Italia sotto questo punto di vista. Invece siamo finiti all’interno di crisi economiche che in parte potevano essere evitate o, perlomeno, di cui si potevano ridurre gli effetti.
Le crisi, appunto. In venticinque anni – pensiamo, ad esempio, a quella del 2008 – hanno lasciato un segno profondo. Quali sono state, secondo lei, le trasformazioni più evidenti?
Prendiamo in considerazione per un momento il settore della produzione industriale dell’auto o quello della stessa finanza: abbiamo visto e vissuto trasformazioni che oggi – nel guardarle a posteriori – consideriamo inevitabili. Io, invece, credo che siano state generate anche dal fatto che si è lasciato fare troppo al mercato e che le politiche, come dicevo prima, non sono riuscite a gestire adeguatamente queste trasformazioni. Il passaggio all’elettrico, ad esempio: poteva essere più rapido. Invece, è andato a rilento. Stessa valutazione per quello che si sarebbe potuto fare sul profilo delle infrastrutture legate alle energie alternative. Non penso che tutto questo sia legato a interessi precostituiti, di certo però i processi di adeguamento hanno subìto un allentamento, magari frutto di un’incapacità di mettersi in azione o di guardare al futuro con coraggio.
L’avvento delle tecnologie digitali ha rivoluzionato molti settori. Come e quanto hanno influito sulla produttività, l’occupazione e le imprese?
Le tecnologie digitali sono state una vera e propria rivoluzione trasversale. All’inizio abbiamo avuto l’impressione che avrebbero potuto agire molto sulla qualità della produttività e della vita delle persone. Ma anche qui è emerso un problema: servivano riforme economiche e sociali – ridurre, ad esempio, gli orari di lavoro, spostare risorse sui servizi di cura alle persone, etc. – tali da fare di queste tecnologie digitali un’occasione per ripensare il modello sociale. Anche qui, credo che ci siamo trovati di fronte a una trasformazione incompleta, non affrontata in modo adeguato. Certamente hanno influito, è innegabile, ma hanno finito per creare più difficoltà in alcuni settori produttivi. In assenza di una riqualificazione della forza lavoro abbiamo perso posti. In assenza di capacità di gestire le relazioni industriali e i rapporti con i sindacati – e forse anche di investimenti necessari a fare tesoro di queste trasformazioni – hanno finito col creare più problemi che soluzioni. Soluzioni che invece sarebbero potute arrivare dalle stesse tecnologie digitali, se intese come strumento di allargamento e di possibilità di accesso. Alla fine, invece, si sono trasformate in una barriera, in un cambiamento capace solo di generare una crisi. Resta però la speranza: oggi, in realtà, le tecnologie digitali potrebbero cambiare molte cose, ma dovrebbe essere gestito soprattutto il loro impatto sociale.
La diffusione della “gig economy” e dei contratti atipici ha trasformato le relazioni lavorative. Cosa è cambiato in venticinque anni e quali sono le implicazioni di queste nuove forme di lavoro?
Su questo argomento sono molto radicale: si è precarizzato il lavoro. Si è determinata una situazione di minori tutele, minori garanzie e più insicurezza. Mentre il secolo precedente aveva visto, almeno fino ad un certo punto, l’ampliamento delle sicurezze dei lavoratori, in questi venticinque anni la situazione è stata sicuramente di peggioramento sotto questo profilo. Si pensi solo al discorso delle pensioni o a quello dell’accesso ai servizi. Non voglio dire che per affrontare questo momento avremmo dovuto parlare di più di reddito di cittadinanza, ma se ci fosse stato più coraggio nell’immaginare un modello di “flex security”, questo a mio avviso avrebbe garantito una modalità di gestire queste trasformazioni che sono diventate solo fonte di precarietà non solo lavorativa ma anche economica e sociale. E questo vuol dire anche un costante aumento delle diseguaglianze.
I conflitti geopolitici in atto e le tensioni internazionali hanno fatto e fanno sentire il loro peso. Che impatto hanno avuto e continuano ad avere sul lavoro e sull’economia?
I conflitti – quelli passati e quelli in corso – sono stati la vera sciagura di questi anni. Così come l’incapacità di gestire un altro nodo: le tensioni internazionali che ne sono scaturite. Hanno avuto un peso estremamente negativo e interrotto un processo di globalizzazione che poteva essere forse un momento di apertura del mondo a una nuova prospettiva. E invece è accaduto l’opposto: siamo tornati indietro da questo punto di vista. È fallito un tentativo di relazioni e approcci che nei precedenti trent’anni aveva comunque gestito le conflittualità a livello globale in modo da avere meno esplosioni possibili. Una situazione che ha avuto ovviamente un impatto anche sull’economia, in particolare sulla nostra parte di mondo, il cui peso rischia di essere e rimanere negativo.
Considerato quanto accaduto dal 2000 ad oggi e vista la situazione attuale, cosa possiamo aspettarci per il futuro?
Finché non termineranno almeno due guerre – quella in Ucraina e quella in Medio Oriente – il futuro non potrà che essere difficile. Si tratta di due conflitti potenzialmente esplosivi, in grado di allargare gli attori in gioco. È difficile quindi pensare che si possa riprendere un cammino di prosperità. Ma anche solo di selezione di un personale politico in grado di gestire prospettive di crescita economica, piuttosto che di conflittualità. Mi aspetto purtroppo che il mondo attraversi un maggiore sviluppo del settore e delle forze militari, se non si risolve tutto questo. Mentre tutto quello che è legato allo sviluppo di tecnologie che possono liberarci dalle fatiche e dalle difficoltà, verrà ritardato. Inoltre, anche se c’è molta difficoltà ad ammetterlo, io credo che ci siamo allontanati inesorabilmente da quasi tutti gli obiettivi prefissati dall’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, sia sul fronte ecologico, della riduzione delle povertà, della maggiore istruzione. Ci sono meno risorse nel mondo per perseguirli. Perché si è troppo impegnati ad “abbattere il nemico”. Almeno per il momento sono altre le priorità dell’agenda politica rispetto a quelle così elevate che il mondo si era dato a livello spirituale e morale quando eravamo un po’ più in pace.
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