Si chiamava Iris ed era una creatura dalla bellezza seconda soltanto all’intelligenza, all’intuito, al talento di seduttrice.
Si è ammalata gravemente nel pieno di una maturità brillante. È stata operata, rioperata, curata. Quando non c’è stato più niente da fare è stata coccolata, consolata, carezzata. Fino alla fine. C’è stato un funerale commovente. Poi un banchetto sobrio ma ottimo. In piedi, reggendo ciascuna la propria tartina o il calice di prosecco, abbiamo parlato di lei. Era – pare – una gatta dolcissima, generosa e dominante. Aveva un carattere signorile.
Era sprezzante ma curiosa. Non si abbassava certo a mangiare i topi, lei che aveva accesso al cuore del filetto di manzo, però li uccideva e scaricava il cadavere sui piedi della sua “mamma”, che apprezzava il regalo e, per non offendere la donatrice, cercava di non vomitare davanti al topo morto, come tutto il suo stomaco sommessamente chiedeva.
Tornando a casa dalla cerimonia ero perplessa: tutte le mie amiche hanno uno o più animali. Andiamo dall’estremo di Silvia che ha un numero variabile di gatti e sei cani, al cane unico di Roberta che però, al suo cane, si dedica assai più di quanto io mi sia mai dedicata ai miei figli (e non ero una cattiva madre). C’è poi Sandra che ha quattro cani e quando vive in campagna tutto va bene, ma quando li porta a Roma e gira per le strade del centro sembra una pazza, con quei quattro guinzagli che la tirano di qua e di là.
Poi c’è Marianna che parla con Mafalda come se fosse una bambina adorata invece che un Carlino dal muso simpatico.
E qui mi fermo, ma potrei continuare: c’è chi alla gattina dà da mangiare soltanto filetto di branzino cotto al vapore e c’è chi porta il cagnolino tutte le settimane da una psicologa per animali che – al costo di una seduta da 50 minuti – le fa superare il trauma di essere stata buttata nel bidone dell’indifferenziata quando era appena nata.
Tutte e tutti, senza interruzione, sono in grado di intrattenerti per giorni sulle varie forme del loro amore e della loro conseguente ansia per tutto quello che può succedere ai loro animaletti: un morso da parte di altro cane, una polpetta avvelenata ad opera di vicini criminali, una fuga nel traffico conclusa con incidente mortale.
Si sa che più si ama più si sta preoccupati, ma la domanda è: perché amiamo così tanto i nostri piccoli animali?
Nei Paesi in cui la povertà è ben visibile, come in certe zone dell’India, vedi cani magri e selvatici aggirarsi senza collare per le strade frugando nell’immondizia.
Qui da noi i cani hanno fiocchetti e cappottini, godono di una condizione antropomorfa e privilegiata: sono i bambini che non abbiamo più il coraggio di mettere al mondo?
Nessuno ha mai osato considerare la crescita zero in relazione con il moltiplicarsi esponenziale dei “pet shop”, l’acquisto di quadrupedi da compagnia e la passione dilagante per i propri animali.
«Sono i bambini degli egoisti, quelli che rifuggono dalle responsabilità ma vogliono lo stesso la loro quota di tenerezza», ha sentenziato su Facebook un campione della categoria degli odiatori non professionisti.
Quelli che dissentono da tutto, ma ragionevolmente.
«Sono bambini che non crescono, non diventano adolescenti, non se ne vanno di casa, non finiscono di essere uomini e donne come noi. Non ci dimenticano», ha spiegato, sconsolata Maria.
Ha ottantadue anni, Maria.
Aggiunge, con un filo di malinconia: «Sono bambini che possiamo avere anche noi, noi anziane, infertili da trent’anni, condannate a frequentarci fra noi senza mai aprire una finestra sulle generazioni venute dopo».
Non ha avuto figli, Maria. E quindi non è benedetta dai nipotini. Riversa su Boby e Berta, due golden retriever di rara bellezza, tutta la sua voglia di amare. Ma anche Boby e Berta hanno un’età. Tredici anni e mezzo uno, quasi quindici l’altra. Maria sostiene che quando moriranno non potrà prendere un altro cane.
«Perché?», chiedo.
Mi guarda come se fossi appena sgusciata fuori da un uovo o scesa da un albero. «Come perché? Quando loro verranno a mancare io avrò già 85 anni, magari 86… il nuovo cane mi sopravviverà di sicuro. E chi si prenderà cura di lui/lei quando io sarò morta e sepolta? È da irresponsabili crescere “un orfano, un’orfana”».
Scopro poi che i canili non ti fanno prendere cani cuccioli o giovani se non sei, anche tu, abbastanza giovane da garantire una famiglia efficiente per tutta la durata della sua vita canina.
Lo capisco, tuttavia mi rattrista. Come mi rattrista questo amore struggente per una specie che non è quella a cui apparteniamo.
È davvero diventata così dura la vita di noi donne e uomini occidentali, ben annidati in un presente di benestanti distratti e freddi? Abbiamo maturato un bisogno di affetto superiore a quello che possiamo aspettarci dai nostri simili?
Nelle nostre esistenze ben pianificate un cane che scodinzola per la gioia di rivederci, un gatto che fa le fusa sul nostro grembo arido, sono diventate necessità primarie, risarcimenti a cui non possiamo rinunciare.
Lidia Ravera è nata a Torino. Giornalista, sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato trenta opere di narrativa tra cui “Porci con le ali” (Bompiani 1976), “Sorelle” (Rizzoli 1994), “L’eterna ragazza” (Rizzoli 2006), “La guerra dei figli” (Garzanti 2009) e “A Stromboli” (Laterza 2010). Gli ultimi romanzi “Piangi pure”, “Gli scaduti”, “Il terzo tempo”, “Avanti, parla” sono nel catalogo Bompiani. Ha lavorato per il cinema, il teatro e la televisione.
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