Isolati nelle proprie abitazioni, nell’attesa di una tregua sanitaria. Impossibilitati ad uscire perché “da decreto” non è possibile farlo. Niente più incontri con amici, nipoti, figli. Stop a quella sana routine fatta di piccole abitudini che servono a sentirsi vivi.
Questa è oggi la situazione degli anziani in Italia. Un popolo sempre più vasto costretto tra le mura della propria abitazione causa Covid. Ma nel tentativo di salvarli dall’abbraccio mortale del virus si rischiano altri danno collaterali. Si affaccia infida e silenziosa la solitudine, quella vera, dovuta all’isolamento perenne.
Essere soli in terza età, mentre imperversa il lockdown
Quello della solitudine, soprattutto in tarda età, è un problema serio che non è sfuggito ad una ricerca di pochi mesi fa. Si tratta de Gli italiani e il senso civico. Focus solitudine. Gli autori dell’indagine – Ipsos, Comieco e Symbola – hanno rivelato che il 60% di coloro che ne soffrono appartengono oggi ad una fascia anagrafica particolarmente fragile: gli anziani.
La conferma di questo “vuoto cosmico” che risucchia tutti, in particolare i più bisognosi, arriva indirettamente dalla Enuan, una startup che dal 2008 si occupa di intelligenza artificiale. In particolare si interessa di IA applicata ad ambiti quali telefonia e chat. Nel precedente periodo di lockdown alla Enuan hanno notato qualcosa di inaspettato. Molti anziani – ma non solo loro – hanno cominciato a interagire e chiacchierare con i chatbot.
Cosa sono i chatbot? I chatbot o chatterbot consistono in un software capace di simulare una conversazione con un essere umano. Il loro scopo principale è proprio quello di “fingere” un comportamento simile al nostro. E lo fanno talmente bene che spesso vengono definiti “agenti intelligenti”. Sono usati per vari scopi come la funzione di guida in linea. Oppure per rispondere alle cosiddette FAQ, cioè alle domande che più di frequente possono fare gli utenti che accedono ad un sito.
Quattro chiacchiere col chatbot
Isolati, abbandonati, impossibilitati a comunicare da vicino con qualsiasi essere umano. Ora, se lo scenario è il seguente, gli elementi per un “dialogo” tra l’uomo e la macchina ci sono proprio tutti. Visto che la sola tecnologia non può di certo contagiarci.
Secondo gli esperti della Enuan, dallo scorso marzo in poi – specie durante il lockdown – sono cresciute di oltre il 30% le interazioni “più empatiche” tra persone e chatbot. Gli utenti, interfacciandosi con gli interlocutori virtuali, chiedevano loro come stavano, come si sentivano. Un modo “molto umano”, probabilmente, per instaurare un rapporto.
Una persona su tre non si accorge che sta parlando con un robot
Negli ultimi tempi le conversazioni tra assistenti virtuali e persone si sono “umanizzate”. Una persona su 3, sempre secondo la Enuan, ha dichiarato di non essersi mai accorta di parlare con un agente virtuale. Ecco perché sono aumentate domande o affermazioni del tipo: «Parlami un po’ di te», «Gentilissima e premurosa, la ringrazio», «Come ti chiami?» e «Mi scuso per averle fatto perdere tempo. Grazie».
Il livello raggiunto da alcuni chatbot e voicebot renda ormai quasi impossibile stabilire se chi lo sta supportando sia virtuale o umano. Certo, quello che si palesa sembra uno scenario alla Blade Runner. Ricordate? Umani e androidi erano indistinguibili fra loro. Ma, stavolta, alla base deve esserci anche un inganno della mente: il bisogno di parlare con qualcuno un tempo ci induceva a parlare da soli, oggi con una socialità fortemente ridotta, tra un lockdown e l’altro, ci va bene anche parlare con una macchina. Meglio di niente. Con buona pace degli “apocalittici”.
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