«Un’autobiografia me l’avevano chiesta tante volte. Non avevo mai accettato, finché non ho rischiato la vita cadendo dal palcoscenico. Allora mi sono detto che avevo qualcosa da raccontare». Umberto Orsini, il grande attore di teatro, cinema e televisione, ha scritto Sold out
di Raffaello Carabini
25 settembre 1955. Sul vagone letto che porta da Milano a Roma un giovane Umberto Orsini si sta recando a sostenere il provino di ammissione all’Accademia di Arte Drammatica Silvio D’Amico, la più prestigiosa d’Italia. Quando esce dalla cabina per fumare si imbatte in un signore corpulento con il sigaro in bocca che discute con la sua compagna in un misto di inglese e italiano. Solo alcuni giorni dopo il 21enne piemontese scoprirà che si trattava di Orson Welles e consorte. Se non fu un segno…
Da quel giorno partì una carriera infinita, che lo vede tuttora calcare le assi dei palcoscenici, con ben più di un centinaio di spettacoli cui ha partecipato, decine di film, numerosi sceneggiati (come si diceva una volta) e programmi Tv, persino svariate partecipazioni a fotoromanzi. «Ma non ho ancora fatto né Re Lear, che mi hanno offerto diverse volte, né Riccardo III», dice. «Una posizione privilegiata: non ho ancora fatto tutto. Quello che mi interessa è lo spettacolo nel suo insieme più che il ruolo, deve esserci qualcosa di nuovo. Per questo lavoro spesso con registi giovani, che hanno idee innovative. Anche se poi, alcune intuizioni che loro credono nuovissime le ho già conosciute nel corso della mia carriera. Mi fido soprattutto della mia capacità di incontrarmi con i lavori che poi si rivelano quelli “giusti”, come Copenaghen, che ho fatto per 460 recite e che sembrava sulla carta un testo sulla fisica, un argomento non teatrale; invece è stata una scommessa vinta. Tante volte mi piace scommettere».
Cosa la disturba di più in un insuccesso?
La mia lotta è sempre in qualche modo con il pubblico. Spero sempre che sia all’altezza di alcune proposte, lo sfido su qualcosa di nuovo, linguaggi, proposte. Non siamo in un Paese così teatrale da ascoltare a fondo le parole che un attore dice sulla scena. È un pubblico che di solito va a vedere cose che già conosce, e quando proponi il nuovo è un ostacolo. Questo mi disturba. Ma vincere l’ostacolo, convincere il pubblico, venuto ma diffidente, mandarlo a casa con un’acquisizione, una conoscenza più ampia rispetto a quando si è seduto sulla poltrona, è il risultato più grande che io possa avere. Non solo da attore, da persona che sa di essere nello spettacolo per fare qualcosa di utile culturalmente. Non voglio consolare il pubblico, mi piace che la gente in platea senta la sedia bruciare sotto di sé per aver trovato un prodotto che non si aspettava.
Come è cambiato il mondo del teatro durante i suoi lunghi anni di carriera e che prospettive vede oggi?
È cambiato perché il pubblico cambia. Una volta chiedevano chi è l’attore, oggi la gente chiede quanto dura? Oggi i tempi si sono fatti più ristretti, perché così si consumano altri spettacoli, come la televisione che è molto più rapida di quella di una volta. Allora si facevano romanzi sceneggiati come I fratelli Karamazov, con tempi distesi, tante parole; oggi la gente si annoia facilmente. Il pubblico è diventato più frenetico e lo stesso è diventato il teatro. Prima c’erano i grandi attori che potevano permettersi il lusso di essere portatori di un messaggio dal palco, oggi la parola dev’essere più penetrante. Gli spettacoli sono sempre in qualche modo lo specchio di chi li sta vedendo.
I film e le fiction Tv sono ancora una sorta di corollario, dal punto di vista della recitazione, del teatro?
Pensano in molti che siano ambiti differenti, soprattutto in Italia, dove un attore di teatro non trova un travaso nel mondo del cinema e viceversa, come invece avviene in quasi tutti gli altri Paesi. È un’occasione mancata per entrambi; se le due maniere espressive si fossero collegate con un’osmosi naturale, avremmo avuto generazioni di attori differenti sia a teatro che nel cinema e nelle fiction.
Come ha vissuto il periodo in cui era sempre sulle copertine dei rotocalchi e protagonista del gossip?
Era un periodo in cui avevo una popolarità estesa. I Karamazov facevano 14 milioni di spettatori, oggi mi rivolgo a un pubblico di 300mila persone che conoscono il mio lavoro e mi seguono con fiducia. Quando ero giovane, bello e famoso vivevo quel tipo di fama con molta tranquillità, la cercavo, facevo spettacoli Tv con un pubblico larghissimo, che però non veniva a vedermi in teatro. La Tv è sempre un’offerta subíta, non voluta, mentre a teatro vai a vedere uno spettacolo, paghi il biglietto, scegli. Meglio essere apprezzati da questi spettatori, che essere una sorta di oggetto di consumo non scelto, ma subíto.
La forza di essere ancora sulle scene e di fare ricerca teatrale che mantiene nel tempo da dove le viene?
Viene dall’infanzia, dall’essermi fatto da solo. Le mie scelte sono state molto autonome. La forza è sapere che, quando sono sul palcoscenico con mile occhi addosso, sono indagato. Mi offro a questa analisi, ma cerco di mantenere un certo mistero, un margine di conoscenza che non viene soddisfatto durante la serata. Mi do con parsimonia, sapendo di avere altre armi di riserva per sorprendere il pubblico la volta successiva. In qualche modo è rispondere al bisogno di rinnovarsi, di cambiare l’abito che ti è stato cucito addosso.
Il rinnovarsi è lo sforzo maggiore di un attore…
Sì, perché significa non accontentarsi. Mi conosco e mi accorgo subito quando riciclo qualcosa che ho già dato. Spero che il pubblico non se ne accorga. Le doti di un attore sono sempre limitate: la faccia è quella lì, che può avere un tot di espressioni. C’è chi ne ha una sola, io non so quante posso averne, però gli anni aiutano, ogni età ha la sua faccia, ha la sua voce. Anche la mia, che è piuttosto conosciuta – quando vado in un negozio e chiedo: «Per favore, avrebbe…», le signore si voltano e dicono: «L’ho riconosciuta dalla voce», mentre io riesco ad avere quell’etto di prosciutto prima di loro – si modifica, anche se rimane in qualche modo un timbro dell’anima. Quando riprendo uno spettacolo fatto anni prima è sempre diverso, perché sono diverso io, sono diversi i tempi e mi baso meno sulla tecnica e più sul sentimento. Pur essendo uguale il guscio, dentro c’è una sostanza diversa e questo il pubblico lo avverte.
Come si combatte la difficoltà di una vita sempre in tournée, sempre lontano da casa?
Con la routine. Cerco sempre lo stesso albergo, la stessa camera se possibile. In ogni città cerco un mio luogo preferito, frequento spesso lo stesso ristorante. Cerco in qualche modo di sentirmi a casa, anche standone lontano molto tempo. Lo fanno un po’ tutti gli attori devo dire, che provano malinconia quando non trovano più il ristorantino preferito o il mutare di alcuni posti amati. È come un cambiamento del tuo habitat famigliare. Ricordo con affetto un albergo dove andavo e dove una volta avevo chiesto uno yogurt al limone. In seguito, tutte le volte con gentilezza mi dicevano: «Abbiamo il suo yogurt con il limone». Anche quando ho cambiato gusti, me lo facevo portare in camera. Non mi piace contraddire le persone che mi vogliono bene, preferisco glissare o, addirittura, non farmi vedere più.
Qual è stato il partner o la partner che l’hanno fatta sentire più a suo agio?
Ce ne sono stati molti, tutti bravi. Recitare con loro è un grande vantaggio. Come quando si gioca a tennis. Se lo fai con un compagno di circolo più o meno del tuo livello, hai in risposta palle poco tese, che vanno dove vogliono, mentre giocare con un maestro ti fa essere più bravo e provare tiri più forti. Così è recitare, più bravo è il partner o la partner con cui scambi battute e più migliori. Potendo, ho sempre scelto di recitare con attori bravi, come Carraro oppure Santuccio, anche più giovani di me, come Branciaroli o Popolizio, e partner come la Falk o la Cortese. Diventi più bravo se scambi la palla con chi la rimette nel tuo campo in maniera intelligente. È voglia di confronto e di approfondimento, è evitare la superficialità. Vale nel teatro così come nella vita.
Tutta la vita in un libro
«Ho scritto la mia autobiografia come fosse uno spettacolo. Sono abituato da sessant’anni a lavorare sulle parole. I testi teatrali li violento, li taglio, li faccio ritradurre, provo soluzioni nuove, li contamino con altri, magari metto una battuta di Strindberg dentro Pirandello, ho l’orecchio allenato. L’ho lavorata come un testo che mi piacerebbe leggere, con la mia voce». E Sold out (Laterza, pagg. 224, € 18) si legge tutta d’un fiato, piena di fatti, dal bacio di Mussolini durante una parata al primo, ricevuto da un ragazzo, dal pugno che ruppe il naso alla Falk a Celentano spennato a poker, dalle amicizie di teatro con grandi maestri, come Valli e Ronconi, alle chiacchierate storie d’amore, dalle partite di tennis con Tognazzi al primo programma Tv sulla cucina.
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