«La fiaccola? A me non interessava, avevo promesso ad un amico che gliel’avrei regalata, al termine dell’evento. Ma i miei genitori non vollero saperne. ‘La fiaccola rimane a casa mia’, disse mio padre con quel tono autoritario che l’ha sempre contraddistinto, e il mio amico non poté far altro che annuire».
È così che, quel cimelio, a distanza di sessant’anni, è ancora lì, nel soggiorno della sua casa ad Alatri, in provincia di Frosinone. Camillo Vinci non perde occasione per mostrarlo, a parenti ed amici, ogni volta che ne ha la possibilità. Raccontandone aneddoti e curiosità.
Classe 1940, primo di tre fratelli, per oltre vent’anni è stato un militare, arruolato nell’aeronautica. «Mio padre faceva l’ortolano, mia madre vendeva frutta e verdura al mercato del paese, non eravamo una famiglia benestante, ma non ci è mai mancato niente», racconta. All’epoca delle Olimpiadi di Roma si trovava a Caserta, allievo presso la scuola specialisti. Aveva venti anni.
La convocazione da tedoforo: un privilegio dal sapore di costrizione
«Abitavamo all’ultimo piano della Reggia – racconta – , eravamo oltre quattrocento. Poiché mancavano tedofori per portare la fiaccola, il Comitato organizzatore chiese aiuto alle forze armate. Del nostro gruppo ne presero meno di una decina, quelli che facevano i tempi migliori. Ci convocarono, qualche settimana prima, dicendoci che avremmo dovuto portare la fiaccola olimpica. Non provai chissà quale emozione, non ne fui entusiasta. Sono sempre stato un carattere indisciplinato, la vita militare mi stava stretta e quella la vidi come l’ennesima costrizione. Fui costretto a sopportarne molte di più, nel corso della mia carriera. Venivo punito molto spesso, a causa del mio carattere ribelle. Anche a Caserta, dove passai 14 mesi, trascorsi ben 72 giorni in cella di rigore (nel lessico militare, la camera di punizione n.d.r.)».
Non fatichiamo a credere alle sue parole. Lui, con il suo carattere irruente, ne deve aver combinate delle belle in gioventù, e chissà che fatica indossare la divisa, sottostandone alle regole.
Ricorda in maniera confusa i giorni antecedenti al passaggio della fiaccola. Non ci fu alcun allenamento particolare, nessun coach, nessuna preparazione mirata. Non ne avevano bisogno: «Amavamo la corsa. A modo nostro eravamo dei piccoli atleti, passavamo le ore a fare a gara dentro il parco del lato sinistro della Reggia, eravamo abituati a correre. Cercavamo un diversivo in quelle giornate tutte uguali».
Eccolo il grande giorno, i ricordi sono vividi, affiorano come delle istantanee a ripercorrere i momenti salienti del grande evento. «Fummo portati a mensa nella caserma degli ufficiali e truppe corazzate, ricordo che mangiai due cotolette enormi. Non esattamente un pasto da sportivo!», confida sorridendo. «Poi salimmo su un camion, direzione Aversa. Mi fecero scendere a Porta Napoletana. Da qui inizi tu», mi dissero.
La frazione n.990, il tratto di Aversa
«Era il primo pomeriggio, c’era tanta gente per strada. Nessuno sapeva bene cosa stesse per accadere, noi stessi, del resto, non eravamo consapevoli dell’importanza del gesto che ci apprestavamo a compiere. Indossavamo la tuta con lo stemma olimpico, e questo ci rendeva riconoscibili, e fonte di curiosità per gli altri. Mi è stata consegnata la fiaccola, sarei stato scortato da quattro motociclisti della stradale, e c’era anche il responsabile di gara. Vidi arrivare l’altro tedoforo in lontananza, capii che era il mio momento. Ci fu il passaggio di fiamma, accesi la mia fiaccola, ed iniziai a correre. Entrai in paese, girai parecchie strade. Ricordo il caldo del fuoco, le persone ammassate che applaudivano e mi incitavano. Non ero affaticato, correvo correvo correvo. Tanto che, ad un certo punto, un motociclista mi urlò: Uagliò va più piano».
Nel racconto di Camillo non mancano episodi strambi: «Ad un certo punto un vecchietto si fece spazio tra la folla, e si avvicinò a me con un fiasco di vino, porgendomi un bicchiere pieno. Sfortunatamente andò a finire addosso a uno dei motociclisti che mi scortavano, e questo cadde a terra. Non so che fine fece, fatto sta che arrivai all’uscita del paese, dove c’era il ponte della ferrovia, scortato soltanto da tre centauri. Lì c’era il direttore di gara con l’altro tedoforo ad aspettarmi, gli passai il testimone, e lui proseguì la corsa».
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