Si partiva per il mare due giorni dopo la chiusura delle scuole, nel mese di giugno, si tornava in città il 30 di settembre, perché allora, nel cenozoico, le scuole ricominciavano il primo di ottobre. Tre mesi e mezzo di vuoto totale. Si partiva io, mia madre e mia sorella. Mio padre arrivava ad agosto e con lui si faceva “Il viaggio”. Dietro la millecento blu veniva attaccata una roulotte giallina, e ci si muoveva alla volta di luoghi pericolosi e lontani da Torino come la Calabria, una volta addirittura l’Abruzzo e Molise. Finite le ferie paterne, io mia madre e mia sorella venivamo di nuovo deportate al mare. Cioè nel paesino ligure di Laigueglia, dove tutti i giorni alla stessa ora ci si recava ai Bagni Arcobaleno, a mezzogiorno si tornava a casa, nell’asfissiante appartamentino del condominio Primavera, per tornare poi ai Bagni Arcobaleno alle ore 16 e restarvi fino all’imbrunire. La sera si eseguiva la Passeggiata al culmine della quale si consumava un gelato dal titolo scoraggiante: “la coppa del nonno”, una cremina beige al vago sapor di caffellatte. Dopo 13 anni di questo strazio per bambini benestanti (la villeggiatura era privilegio delle classi medie, abbastanza abbienti) minacciai di darmi fuoco davanti alla cabina numero 18 se non mi avessero, dall’anno dopo, lasciata a casa. Magari da sola. A fare compiti supplementari (purtroppo ero sempre promossa), a lavare le scale, a bagnare le piante, a dar da mangiare al gatto dei vicini, ero disposta a tutto pur di non tornare ai Bagni Arcobaleno. È da allora che sono allergica alla vacanza. A cominciare dalla parola, vacanza, che richiama il vuoto. Il vuoto mi dà le vertigini. Mi dà l’ansia, l’idea che ci siano dei momenti in cui ti devi divertire, devi essere felice, devi godertela, e dei momenti in cui devi patire, sacrificarti e vendere il tuo tempo in cambio di denaro. A me piace scavarmi angolini di gioia tutti i giorni e lavorare molto tutti i giorni.
Tre mesi e mezzo senza scrivere li vivrei come una calamità innaturale, non certo come un riposo. Purtroppo, anche un anno senza i miei tre mesi e mezzo al mare lo vivrei come un anno disgraziato. Così mi sono attrezzata per abitare dai primi di giugno su un’isola, che è un luogo deputato alla vacanza, ma, da lì, lavorare come se fossi in miniera. Tutti i giorni e tutto il giorno. Disciplinata come un soldatino, in guerra con le parole. Certo, una nuotatina al giorno me la concedo, ma è una nuotatina selvaggia. Niente Bagni Arcobaleno.
Sono una privilegiata, perché ho sempre potuto organizzarmi il lavoro dove voglio e con l’orario che voglio, a parte i cinque anni in cui sono stata Assessore alla Cultura e alle Politiche giovanili della Regione Lazio, tre settimane di ferie, nel pieno di agosto.
Voi, o almeno la maggior parte di voi, care lettrici e cari lettori, al privilegio in cui io vivo da sempre siete arrivati da poco, con il ritiro dal lavoro e la meritata pensione.
I maschi, quasi sicuramente, proveranno un gran senso di vuoto. Erano abituati a dipendere, se sono stati lavoratori dipendenti quindi smettono di lavorare, di studiare, di pensare, di fare qualsiasi sforzo. Molto probabilmente si sentiranno soli senza le chiacchiere coi colleghi, senza il caffè al bar, senza occasioni, magari, per partire. Un congresso. Una trasferta pagata.
Le donne se la caveranno meglio: non sono abituate a considerare la casa una galera da cui fuggire andando in ufficio o in fabbrica o in negozio. Ne hanno sempre avuto cura, della casa, tornando stanche dal lavoro. Sono ben felici di poter distendere quell’attività contratta da sempre (rigovernare) sulla intera giornata e sanno come occupare il tempo libero.
Resta il fatto che “andare in vacanza” quando non c’è un tempo occupato dal lavoro risulta, in qualche modo, più difficile. Non puoi contare sul sollievo immediato della libertà dalla costrizione: “È agosto, sono in ferie, la sveglia non la metto, quando mi sveglio mi sveglio”.
È da quando sei andata in pensione che la sveglia non la metti.
Tempo libero ne hai quanto ne vuoi e spesso non sai come occuparlo.
Per alcune può essere una gioia infinita. Per altre uno stato d’ansia: “E adesso?”
Non fatevi prendere dal panico. La vita non è una sacca vuota da riempire di doveri o, tre settimane all’anno, di piaceri.
Lasciatevi vivere, senza freni, senza limiti, senza orari. Guardatevi attorno con calma.
Qual è il desiderio che avete represso? Andare a scuola di Tango? Misurarvi con la scrittura creativa? Imparare il giapponese?
Realizzatelo, in rete o di persona, oggi si può imparare di tutto. La vacanza, con la sua assenza di regole, ha invaso tutta la vostra vita. Non opponete resistenza: godetevela.
Tutto può diventare un viaggio, se vi sorregge la curiosità del viaggiatore, la sua passione per l’altrove. Può bastare anche un tragitto in autobus, verso un quartiere lontano dal vostro, dove non siete mai state. Basta avere un taccuino nella borsa, per annotare che cosa vi colpisce, le piccole rivelazioni di una mente sgombra. E riposata.
Lidia Ravera è nata a Torino. Giornalista, sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato trenta opere di narrativa tra cui “Porci con le ali” (Bompiani 1976), “Sorelle” (Rizzoli 1994), “L’eterna ragazza” (Rizzoli 2006), “La guerra dei figli” (Garzanti 2009) e “A Stromboli” (Laterza 2010). Gli ultimi romanzi “Piangi pure”, “Gli scaduti”, “Il terzo tempo”, “Avanti, parla” sono nel catalogo Bompiani. Ha lavorato per il cinema, il teatro e la televisione.
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