«Ci vuole coraggio per essere davvero definito un eroe; virtù cristallina del sergente maggiore Roddie Edmonds che davanti a un ufficiale nazista salvò la vita di molti soldati ebrei mettendo in gioco la sua»
L’abuso del termine “eroe” nel linguaggio contemporaneo è un fenomeno preoccupante, parte di un più generale deterioramento del lessico pubblico. Troppo spesso, la parola viene impiegata in modo sbrigativo ed errato per descrivere persone colpite da eventi tragici o criminali (come ad esempio un attentato), anche se non hanno compiuto atti eroici e sono state solo travolte dall’ingiustizia del destino. Questo uso impreciso diluisce il vero significato del termine e sminuisce i veri atti di eroismo. Eroe dovrebbe essere definito chi mette consapevolmente in pericolo la propria vita, la propria incolumità o propri beni essenziali per proteggere gli altri o per perseguire un ideale.
L’essenza stessa dell’eroismo è strettamente connessa al concetto di scelta, una delle categorie fondamentali per l’etica di ogni tempo. Eroe è dunque chi sceglie in base a valori e non in base al proprio interesse personale: soccorritori in situazioni pericolose, professionisti che lavorano in condizioni estreme, attivisti che lottano per cause giuste a rischio della vita. Usare in modo appropriato la parola eroe preserva il fondamentale significato etico del termine, aiuta l’individuazione di modelli virtuosi così indispensabili a ogni società e alla nostra più che ad altre.
Una delle nostre storie preferite di eroismo è quella che segue.
Alla fine del 1944 le truppe alleate, che il 6 giugno erano sbarcate in Normandia, avanzavano trionfalmente alla riconquista dell’Europa. I comandi angloamericani erano convinti che la guerra si sarebbe conclusa entro l’anno. Si sbagliavano. Il 16 dicembre l’esercito tedesco scatenò un attacco violentissimo e del tutto inatteso sulla linea del fronte fra Belgio e Lussemburgo. Cominciava così l’ultima grande battaglia della Seconda guerra mondiale: l’offensiva delle Ardenne. Le forze angloamericane, prese di sorpresa, furono costrette ad arretrare per diversi giorni, subirono perdite durissime e lasciarono nelle mani dei tedeschi migliaia di prigionieri. Fra questi c’era il sergente maggiore Roddie Edmonds con oltre mille uomini del suo contingente del quale facevano parte anche duecento ebrei. La Wehrmacht aveva disposizioni molto precise sul trattamento dei prigionieri di guerra ebrei. L’ordine era di isolarli dalle altre truppe e avviarli in campi di prigionia separati; sul fronte orientale i soldati ebrei che prestavano servizio nell’esercito russo erano stati avviati direttamente nei campi di sterminio.
Alla fine del 1944 molti campi di concentramento e sterminio non funzionavano più a pieno regime, ma i prigionieri ebrei venivano comunque trasferiti in campi di schiavitù, dove le condizioni di vita erano durissime e le possibilità di sopravvivenza molto basse. Le truppe americane erano state ripetutamente avvertite dal loro comando: i soldati ebrei presi prigionieri sarebbero stati in gravissimo pericolo. Questi venivano dunque istruiti sulla necessità – in caso di cattura – di distruggere le loro piastrine di riconoscimento e ogni altro oggetto che in qualsiasi modo potesse identificarli, appunto, come ebrei.
Il comandante del centro di smistamento in cui erano stati condotti il sergente maggiore Edmonds e i suoi uomini convocò i prigionieri nel piazzale e ordinò agli ebrei di farsi avanti. Edmonds si rivolse ai suoi uomini e ordinò a tutti di fare un passo avanti.
«Qui siamo tutti ebrei», disse poi rivolgendosi all’ufficiale nazista.
«Non è possibile che siate tutti ebrei», urlò l’altro dopo essersi guardato intorno.
«Siamo tutti ebrei, qua», ripeté Edmonds, fissandolo con sguardo di sfida. Il comandante del campo estrasse allora la sua pistola, mise il colpo in canna e la puntò alla testa del sergente maggiore. Gli disse che era la sua ultima possibilità di ordinare agli ebrei di farsi avanti, altrimenti gli avrebbe sparato. Edmonds rispose recitando il suo nome, il suo grado e il suo numero di matricola.
«Adesso la uccido, sergente maggiore», disse il nazista.
Edmonds lo fissò ancora per qualche istante, prima di rispondere.
«Se mi uccide, capitano, farà meglio a uccidere anche tutti gli altri miei compagni. Sappiamo chi è lei, sappiamo come si chiama. Farà meglio a ucciderci tutti perché, se non lo fa, verrà arrestato e processato per omicidio non appena avremo vinto questa guerra. Tutti quelli che lei non uccide saranno testimoni al suo processo».
Passarono alcuni secondi interminabili, con i due uomini che si fronteggiavano, il nazista con la pistola puntata alla testa dell’americano. Nel campo regnava un silenzio irreale. Alla fine, l’ufficiale tedesco abbassò l’arma. Poi, rabbioso e impotente, ordinò ai prigionieri di rientrare nelle loro baracche.
I duecento soldati ebrei del reggimento erano salvi.
*****
L’onorificenza di “Giusto tra le nazioni” viene conferita dallo Yad Vashem – l’Ente nazionale per la memoria della Shoah dello Stato di Israele – ai non ebrei che durante il periodo dell’Olocausto rischiarono la vita per salvare gli ebrei. L’unico soldato americano a ottenere questo riconoscimento è stato, nel 2015, il sergente maggiore Roddie Edmonds.
© Riproduzione riservata