È possibile pensare una città a “misura di pedone”? In alcuni Paesi è già stato fatto, con risultati sorprendenti in termini di qualità della vita e smog.
Sarà per il marciapiede dissestato. Sarà per il groviglio di macchine che costringono al solito faticoso slalom. Sarà per gli autobus che non passano mai o per le strisce pedonali tanto sbiadite da non riuscire a intimorire neanche il più prudente degli automobilisti. Sarà per tutti questi motivi che la voglia di uscire di casa passa facilmente. Il che, in tempi di pandemia, può essere anche un bene. Ma in condizioni normali le città che spingono i loro abitanti a starsene rintanati tra le mura domestiche piuttosto che a camminare per le strade e immergersi nella vita cittadina sono tutt’altro che salutari.
Covid-19 non fa testo. Generalmente vale l’opposto: più si esce, più ci si muove, a piedi o in bicicletta, più incontri si fanno, più cose si vedono, più la qualità di vita ci guadagna. Di norma non è isolandosi che si preserva il benessere. Lo sanno bene gli esperti di salute pubblica globale, a partire da quelli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che sono arrivati a considerare le città a misura di pedone la terapia più efficace per combattere le altre pandemie dell’età moderna: obesità, diabete, malattie cardiovascolari, osteoporosi.
E così, mentre gli epidemiologi fanno la conta dei danni alla salute della sedentarietà, gli urbanisti, gli architetti e gli addetti alla mobilità di molti centri urbani nel mondo cominciano a stendere per le città una serie di “tappeti rossi” ai pedoni, progettando soluzioni architettoniche che facciano venire voglia di muoversi a piedi o in bicicletta.
Ma come si costruisce una città a misura di pedone? C’è una ricetta universale valida ovunque? Da dove si deve partire? Abbiamo rivolto queste e altre domande ad Alessandro Franchetti Pardo, architetto, docente a contratto di Progettazione Architettonica e Urbana presso varie Università italiane tra le quali La Sapienza e Roma Tre a Roma, ed estere quali la Cua (Catholic University of America).
Secondo lei, cosa serve a una città per potersi definire “a misura di pedone”?
La questione è complessa. Perché entrambi i termini della definizione, città e pedone, sono molto eterogenei. Partiamo dai pedoni: si tratta di persone di ogni età e di differenti condizioni fisiche che si muovono per le ragioni più svariate. Per facilitare gli spostamenti non basta solo ridurre le distanze, bisogna intervenire sulle barriere architettoniche, limitare il rumore, mitigare gli effetti del clima creando ripari per la pioggia e zone ombreggiate per sfuggire al caldo, prevedere dei servizi, delle aree di sosta ecc. Insomma, c’è tanto da fare. Veniamo ora al secondo elemento, la città. Non tutte le città hanno le stesse caratteristiche. C’è la città cosiddetta “densa” tipica dell’Europa, dove tutto è per lo più concentrato in poco spazio e nelle vicinanze; c’è la città “diffusa” del Nord America dove, al contrario, i luoghi sono molto distanti tra loro e raggiungibili solo in macchina; ci sono le megalopoli asiatiche e del Sud America. Ognuna di queste tipologie ha problematiche diverse. È impossibile trovare una soluzione valida per tutte.
Insomma, non c’è un progetto urbanistico a “taglia unica”. C’è però almeno un interesse diffuso sul tema?
Direi propri di sì. Anzi direi che il rapporto tra città e pedoni è il tema per eccellenza dell’urbanistica attuale. Non c’è progetto urbano che non parta dalla necessità di migliorare l’accessibilità pedonale. È un aspetto che tiene impegnati gli urbanisti di tutto il mondo. Come dicevamo prima, ognuno lo affronta in base alle caratteristiche della città in cui lavora. Per le città americane si cerca di intervenire aumentando la densità, inserendo cioè elementi di interesse per i cittadini nello spazio vuoto che separa due luoghi della città particolarmente distanti. In Europa si cercano altre soluzioni.
Quali per esempio? Le zone pedonali?
L’idea di zona pedonale a sé stante, chiusa al resto della città, è parzialmente superata. Oggi, nelle zone più critiche si prova a realizzare uno spazio urbano condiviso che possa essere vissuto in sicurezza da tutti, ciclisti, automobilisti e pedoni. È un’operazione possibile stabilendo limiti di velocità per i veicoli molto bassi, 10 chilometri all’ora, il classico passo d’uomo. In questo modo viene disincentivato l’uso della macchina, a cui si farà ricorso solo per il trasporto di cose o per accompagnare persone con difficoltà motorie. Si punta quindi allo sharing space, a una condivisione dello spazio, piuttosto che alla zona pedonale.
Dove sono state adottate queste misure?
Soprattutto nel Nord Europa, in Danimarca, per esempio, che è un Paese all’avanguardia nei progetti urbanistici a misura di pedoni.
Perché, cosa fanno in Danimarca di così speciale?
È bene fare una premessa. Quel che davvero fa la differenza è il collegamento con il territorio circostante. Una città veramente accessibile a piedi è una città che consente facilmente a chiunque, in qualunque momento del giorno, ma anche della notte, di partire da un quartiere centrale e raggiungere un quartiere periferico in pochi minuti, senza avere la sensazione di intraprendere un viaggio avventuroso. Questo è quel che succede per esempio a Copenaghen, dove un efficiente sistema di rete metropolitana automatica, tra l’altro prodotta in Italia, collega il centro della città al quartiere nuovo di Ørestad, a 5 chilometri di distanza, rendendo possibile arrivarci con estrema facilità. Il collegamento tra tessuto urbano e suburbano manca del tutto in Italia.
Veniamo all’Italia, per l’appunto… Cosa può dirci delle città italiane. Ci sono stati progressi?
La situazione italiana è variegata. Molte città hanno centri storici di piccole dimensioni che sono da sempre destinati ai pedoni. Pensiamo a Urbino, Siena, Perugia. Ma ci sono anche città più grandi dove i pedoni hanno più difficoltà a muoversi. Qualcosa si sta facendo, anche se molto lentamente. Mi viene in mente il nuovo quartiere di Milano Porta Nuova, dove il verde fa da tessuto connettivo tra un edificio e un altro e dove la mobilità dei pedoni viene incentivata. Ma è un caso abbastanza isolato. Continua a mancare in Italia una progettazione di più ampio respiro che non si limiti alla realizzazione delle aree pedonali. Manca innanzitutto quella rete efficiente di trasporti che consenta di muoversi agevolmente sul territorio. Solo così si avrebbe una vera svolta.
Prendiamo come esempio Roma. Da dove inizierebbe per renderla più accessibile ai pedoni?
Banalmente si potrebbe rispondere potenziando i trasporti pubblici. Ma sembra una missione impossibile. Prima di questa grande e quasi utopistica rivoluzione, si potrebbe partire migliorando lo spazio urbano, allargando i marciapiedi, rendendoli più sicuri, ben drenati dalla pioggia, bene illuminati. Si potrebbero realizzare aree ben attrezzate dove i cittadini possano passare il tempo libero, migliorare gli attraversamenti pedonali, costruire piste ciclabili separate dai pedoni, mitigare gli effetti del clima con la progettazione di zone alberate. Tutte queste misure potrebbero fare già tanto per disincentivare l’uso di auto e motorini.
I benefici per i cittadini e l’ambiente sono scontati. Ma le modifiche urbanistiche a vantaggio dei pedoni potrebbero migliorare anche l’estetica delle città?
Sì certo, se i progetti sono ben fatti l’estetica ci guadagna moltissimo. E anche l’economia. È stato ampiamente dimostrato che la pedonalizzazione favorisce il commercio, i ristoranti, i bar e aumenta anche il valore degli immobili.
A quali progetti ben fatti sta pensando?
Ci sono fior fiore di architetti impegnati in progetti interessanti per aumentare l’accessibilità delle città ai pedoni. Penso a Norman Foster che ha vinto il concorso per Shenzen, in Cina, una metropoli con 13 milioni di abitanti, realizzando un progetto che integra in un unico snodo tre linee della metro e una stazione ad alta velocità intorno a un nucleo verde totalmente pedonalizzato. Penso anche al progetto per il nuovo centro culturale Stavros Niarchos di Atene al Pireo progettato da Renzo Piano, che pensa di mettere a sistema con il centro della città. Sempre ad Atene è in fase di sviluppo un ampliamento della pedonalizzazione della città che, partendo dal quartiere centralissimo della Plaka, coinvolge le zone limitrofe arrivando fino all’Acropoli. Si tratterebbe di uno dei percorsi urbani più affascinanti d’Europa.
Si è parlato molto del ritorno alla vita di quartiere, con scuole, uffici e negozi nelle vicinanze della propria abitazione. Ma siamo sicuri che sia una buona idea? Non c’è il rischio di creare comunità chiuse e isolate?
Il rischio c’è. Ma c’è anche il modo per evitarlo. Basterebbe che i singoli nuclei fruiti pedonalmente fossero ben collegati tra loro. Il che ovviamente dipende dall’efficienza delle infrastrutture. Pedonalizzazione e potenziamento dei servizi di trasporto devono andare di pari passo. L’antidoto alla ghettizzazione è rendere facili gli spostamenti da un luogo della città a un altro. Tutti i progetti che puntano a creare legami culturali tra il centro e la periferia passano necessariamente per la possibilità di accedere a una rete di trasporti veloce e puntuale. La cultura può fare da volano e ridurre idealmente le distanze tra centro e quartieri periferici, ma se poi spostarsi per la città resta un’impresa, anche le migliori iniziative pensate per avvicinare realtà diverse e lontane sono destinate a fallire.
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