Il 1° maggio 1994, Ayrton Senna, il re brasiliano della Formula 1, moriva per un incidente nel circuito di Imola. Trentaquattro anni appena gli sono bastati per entrare nel mito.
Trent’anni. Sono passati trent’anni da quando, un primo maggio di sole sfolgorante, l’auto del campione più amato dell’automobilismo mondiale si schiantò contro il muro di recinzione del circuito di Imola, alla curva del Tamburello. Ayrton Senna era l’eroe dei brasiliani, ma aveva l’Italia nel sangue. La famiglia della madre, dona Neide, era emigrata in Brasile dalla Campania nella seconda metà dell’Ottocento, come tanti abitanti del Vecchio Mondo in cerca di fortuna.
Di quella famiglia Ayrton, diventato pilota, aveva voluto il cognome. “Perché Senna e non da Silva, come tuo padre?”, gli aveva chiesto una volta un giornalista; e lui: “Ci sono tanti Ayrton da Silva in Brasile, ma un solo Ayrton Senna”. Sapeva che sarebbe diventato un campione, Ayrton, fin da piccolo, fin da quando guidava l’auto seduto sulle ginocchia del padre o smontava e rimontava, pezzo per pezzo, il suo primo kart. Troppa la passione per la velocità, troppo il talento che meravigliava gli insegnanti, troppa l’abnegazione.
Chi era Ayrton Senna
Nato a San Paolo il 21 marzo del 1960, Ayrton Senna era già da adolescente un piccolo idolo dei tifosi brasiliani. Il re del kart nazionale, che scelse di omaggiare il suo Paese riproducendone la bandiera coi colori del suo casco. Ma in proporzione rovesciata: il giallo di fondo e due bande, una verde e una azzurra, sopra e sotto la visiera. Doveva alludere al Brasile, la sua bandiera, ma doveva essere innanzitutto sua: immediatamente e universalmente riconoscibile anche da lontano, attraverso i televisori. Ayrton sbarcò in Europa, perfezionandosi in Italia e in Inghilterra, passò dai kart alle macchine, continuò a vincere. Finché, un bel giorno, il padre gli chiese di smettere: lo stesso che lo aveva iniziato alle corse gli impose di rinunciare e assumere la guida della piccola impresa di famiglia.
Obbedì, Ayrton, tornò in Brasile e passò un anno da morto in vita, finché il padre stesso capì che non poteva sottrarlo al suo destino. Ayrton redivivo debuttò in formula uno e in pochi anni si prese la scena: dalla rivelazione nella pioggia di Montecarlo, nel 1984, alla prima vittoria, sempre sulla pioggia, l’anno successivo. Poi la McLaren, i duelli formidabili col francese Alain Prost, tre titoli di campione del mondo (1988, 1990 e 1991), 41 vittorie, 65 pole position, evoluzioni che sembravano impossibili e l’amore incondizionato di milioni di tifosi in tutto il mondo.
La storia di Senna in ‘Veloz como o vento’
Parlava con Dio, Ayrton, si sentiva eletto, era il bel cavaliere senza paura, uno che non si risparmiava, che sempre doveva provare, innanzitutto a se stesso, di essere il migliore. Un eroe vero. Solo e tormentato come un eroe, ma senza eccessi mondani e scandalistici: un portento concentrato sulla sua “missione”, brillante di un carisma naturale. Ho immaginato di raccontarlo fin da quando avevo 15 anni e mi sembrava un perfetto personaggio letterario. L’ho fatto molto tempo dopo con “Beco. Vita in romanzo di Ayrton Senna” (Pequod, 2021) che è appena approdato in Brasile col titolo “Veloz como o vento: a vida de Ayrton Senna em romance” (Maquinaria, 2024). Dentro ci sono Senna-bambino, chiamato “Beco” come un piccolo boccale di birra, che traballava camminando per una forma di iperattività; e
Il mito di Beco non si è infranto nella curva del Tamburello
Senna-eroe, che ha continuato a traballare nella velocità, che ha rifiutato ogni moderazione, ha sfidato il limite e per tutta la vita ha inseguito se stesso. Dopo trent’anni penso ad Ayrton con gioia, insieme a tutti quelli che, al di là della latitudine e della nazionalità, hanno due cose in comune. Un ricordo indelebile: la testa di Senna, appena dopo il botto, che si piega leggermente su un lato e non si muove più. E una certezza altrettanto salda: che il mito di Beco non si è infranto nella curva del Tamburello, ma ha solo sorpassato verso l’alto.
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