Cresce la difficoltà ad accedere ai servizi del Sistema Sanitario Nazionale a causa di liste d’attesa sempre più lunghe. In tal modo le fasce più deboli della popolazione sono costrette a rinunciare alle cure non avendo mezzi economici a disposizione per usufruire della sanità privata.
Era il 2020 quando il mondo, a sorpresa, veniva stretto nella morsa della pandemia da Covid-19. Negli occhi di tutti ci sono ancora le immagini degli ospedali vicini al collasso a causa dell’alto numero di contagi, insieme a quelle del personale sanitario schiacciato da carichi di lavoro al limite della sopportabilità. Quell’emergenza sanitaria improvvisa e inaspettata, fu per il nostro Paese un banco di prova della tenuta del Sistema Sanitario Nazionale, ma, nel contempo, la conferma di tutte le criticità e le fragilità emerse nel periodo pre-Covid.
Nel post-pandemia, la necessità di investire in maniera massiccia sul potenziamento del sistema sanitario e sulle assunzioni del personale sanitario sembrava l’obiettivo principe delle istituzioni, così come il porre la salute delle persone in cima alle politiche globali, poiché senza benessere individuale non può esistere il benessere della società stessa ed il suo progredire nel tempo. A questo punto c’è da chiedersi se a distanza di un anno dalla fine dell’emergenza, la sanità pubblica è riuscita a colmare le lacune emerse durante la pandemia. Qual è la percezione che i cittadini italiani hanno del proprio Sistema Sanitario Regionale e come viene valutata l’efficacia e l’efficienza del sistema ospedaliero del Paese?
A questi e ad altri quesiti risponde il 21° Rapporto Ospedali & Salute, promosso da Aiop (Associazione italiana ospedalità privata) e realizzato in collaborazione con il Censis. Nell’indagine vengono presentati i dati derivanti dal monitoraggio del sistema ospedaliero italiano nelle sue componenti di diritto pubblico e di diritto privato, costituito dalle strutture accreditate.
Il Sistema Sanitario della propria regione: giudizi a confronto
Il 47,7% delle persone intervistate afferma di avere un giudizio positivo del Servizio sanitario della propria regione, tanto che l’8,7% considera ottimo il livello qualitativo delle prestazioni mentre il 39% lo definisce buono. Il 28,1%, invece, lo ritiene appena sufficiente, mentre il 22,4% lo giudica negativamente. Da sottolineare come tra quest’ultimi, il 9,4% sia residente nel Nord-Est, mentre il 35,2% risieda nel Mezzogiorno.
Strutture pubbliche e strutture private accreditate, quali differenze?
Il 60,6% degli intervistati è a conoscenza del ruolo che rivestono le strutture private accreditate e le assimila alle strutture pubbliche, mentre il 17,2% ritiene che le prestazioni fornite dalle private accreditate siano a pagamento. Il 22,2%, invece, non è a conoscenza delle differenze fra le due. In ogni caso al 68,5% dei cittadini non interessa se una struttura sia pubblica o privata accreditata, purché le prestazioni da essa erogate siano di qualità. C’è poi un 55,6% che ritiene necessario rivolgersi ad una struttura privata accreditata poiché gli ospedali pubblici non sono in grado di rispondere con sollecitudine alle richieste dei cittadini.
Tempi di attesa sempre più lunghi
Ma per quale motivo oltre la metà degli intervistati ritiene necessario bypassare l’ospedale pubblico a favore di una struttura privata, accreditata o meno? Una prima risposta la fornisce il Rapporto stesso, riportando i tempi di attesa medi di alcune prestazioni: 5 mesi per una mammografia, una risonanza magnetica o una colonscopia; più di 4 mesi per visite specialistiche gastroenterologiche, dermatologiche od oncologiche; 3 mesi di attesa per ricoveri ospedalieri ordinari, programmati, anche se sono bypass aortocoronarico o angioplastica coronarica.
Essendo, questi riportati, tempi di attesa medi, va da sé che per determinate prestazioni ci potrebbero essere liste d’attesa più lunghe o tempi allungati in specifiche aree geografiche. La necessità di sottoporsi in tempi rapidi ad esami clinici improcrastinabili e a cure salvavita costringe una parte della cittadinanza ad abbandonare il Sistema Sanitario Nazionale in favore di quello a pagamento. L’indagine, infatti, ha messo in evidenza come su 100 tentativi di prenotare una prestazione nel Servizio sanitario regionale, 35 persone si rivolgano a strutture sanitarie private. Un aggravio rispetto al 2019, quindi in periodo pre-Covid, quando le persone costrette ad abbandonare la sanità pubblica in favore della privata erano 28 su 100. In particolare, le percentuali di cittadini spinti a rivolgersi alla sanità a pagamento sono così distribuite: il 29,9% nel Nord-Ovest, il 26,5% nel Nord-Est, il 39,3% nel Centro e il 40,7% nel Sud e nelle Isole.
C’è anche una percentuale sostanziosa di cittadini (il 51,6%) che non effettua neanche il tentativo di prenotare nelle strutture pubbliche ma si rivolge direttamente ai privati.
Il rischio di una sanità per censo
Il dilatarsi dei tempi d’attesa per ricevere una prestazione sanitaria determina non soltanto uno spostamento in avanti della fruizione delle cure ma persino la rinuncia alle cure stesse. Ciò è più vero per chi ha una capacità di spesa più bassa, ovvero per il 31% dei redditi fino a 15 mila euro, mentre per i redditi oltre i 50mila euro la quota scende al 18,7%. C’è anche un’elevata percentuale di persone con reddito basso (il 50,4%) che per potersi curare è costretta a rinunciare ad altre spese, mentre il 42% posticipa o addirittura rinuncia all’assistenza sanitaria a causa dei costi troppo elevati. Tra i redditi più alti ciò avviene rispettivamente per il 22,6% e per il 14,7%.
Ci sono poi i cosiddetti “migranti sanitari” ovvero coloro che hanno necessità di curarsi ma per farlo preferiscono rivolgersi ad altre regioni. Nell’ultimo anno è accaduto al 16,3% degli intervistati. I motivi principali della crescente mobilità tra regioni sono, per il 31,6% degli intervistati, le lunghe liste d’attesa nella propria regione; per il 26,5% la convinzione che in un altro sistema sanitario regionale la prestazione sarebbe stata migliore; per il 17,1% l’impossibilità a ricevere la prestazione sanitaria nella propria regione perché in essa era inesistente.
«In Italia c’è il rischio concreto che si arrivi ad una sanità “per censo” – ha affermato Giorgio De Rita, segretario generale del Censis, commentando i risultati – con un aumento delle diseguaglianze a danni delle fasce meno abbienti che sempre più spesso sono costrette a rivolgersi alla sanità a pagamento non trovando risposte nel Servizio sanitario nazionale». Un’affermazione, questa, che ha trovato riscontro nell’esperienza diretta degli intervistati, il 61,6% dei quali afferma che nell’ultimo anno, nel proprio bilancio famigliare, è aumentata notevolmente la quota della spesa sanitaria, composta non soltanto dai ticket per visite e medicinali ma nel pagamento di prestazioni sanitarie totalmente private o in intramoenia.
14 scienziati si mobilitano per salvare la sanità pubblica del nostro Paese
Il Sistema Sanitario Nazionale presenta dunque gravi criticità destinate ad acuirsi in un futuro prossimo, vista la prorompente trasformazione demografica che sta impattando sul nostro Paese, con una popolazione anziana in forte aumento ed un calo delle nascite sempre più drastico.
Se già oggi parte della popolazione è costretta a mettere mano al portafoglio per pagarsi le cure necessarie a causa dell’inadeguatezza di un sistema sanitario che non è in grado di erogare a tutti le prestazioni basilari, cosa accadrà quando a rivolgersi alla sanità privata saranno costretti i giovani che si prevede avranno meno disponibilità economiche dei loro padri e dei loro nonni? Una preoccupazione che ha spinto 14 tra i più eminenti scienziati italiani, tra cui il premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi a firmare un appello per “Salvare la sanità pubblica” in grave difficoltà.
«Non possiamo fare a meno del servizio sanitario pubblico – si legge nell’appello -. Ma oggi i dati dimostrano che è in crisi: arretramento di alcuni indicatori di salute, difficoltà crescente di accesso ai percorsi di diagnosi e cura, aumento delle diseguaglianze regionali e sociali». Molto «si può e si deve fare sul piano organizzativo, ma la vera emergenza è adeguare il finanziamento del Servizio sanitario nazionale agli standard dei Paesi europei avanzati (8% del Pil). Ed è urgente e indispensabile, perché un Ssn che funziona non solo tutela la salute, ma contribuisce anche alla coesione sociale».
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