Anche quest’anno l’estate è arrivata quasi prima che ce ne rendessimo conto. Anno dopo anno ritorna come un’amante fedele. E la prima canzone che si porta appresso non è il tormentone che non ci lascerà per due o tre mesi, ma la classica “viaggiare, sì viaggiare/ evitando le buche più dure/ senza per questo cadere nelle tue paure/ gentilmente senza fumo con amore/ dolcemente viaggiare.” La cantava Lucio Battisti sul finire degli anni Settanta e da allora ci ricorda una delle nostre più grandi passioni.
La democratizzazione dei viaggi
Proprio quasi cinquant’anni fa prese avvio la grande “democratizzazione” dei viaggi. In quel periodo si vedevano muoversi oltre 550 milioni di persone, contro gli appena 50 milioni del 1970. Un aumento esponenziale che è continuato negli anni successivi, fino a superare il miliardo di persone che sono uscite dai propri confini nazionali nel 2012. Un risultato ottenuto grazie in particolare alla diminuzione dei costi dei voli aerei. Una cifra esorbitante, cui hanno contribuito in maniera decisiva i viaggiatori cinesi, quelli che sono arrivati a spendere più denaro per il turismo internazionale di tutti gli altri.
I viaggi… fino alla pandemia
L’espansione è continuata fino all’arrivo della pandemia, poi un blocco totale, una grande crisi durata circa due anni. Ma ormai, pur non essendo la malattia ancora debellata, tutto sembra quasi dimenticato. Dimenticato il rischio che i viaggi diventassero esperienze privilegiate di pochi ricchi. Dimenticato il famigerato tad, turismo a distanza, dei viaggi effettuati guardando lo schermo di un computer. Dimenticati però anche i propositi di ripensare il muoversi in maniera più lenta e sostenibile, di rapportarci in modo egualitario con persone che vivono l’attualità in maniera e secondo modi di pensare differenti dal nostro.
«Dobbiamo andare»
Percorrere le strade del mondo non è solo un interesse, non è solo un piacere. Spesso è una necessità che ci portiamo nella memoria e nel cuore. Come scrisse Jack Kerouac, autore del paradigmatico Sulla strada, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita: «Dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo.» «Per andare dove, amico?» «Non lo so, ma dobbiamo andare».
Per un viaggio sostenibile
Dobbiamo: nel 2025 le linee aeree prevedono 4,67 miliardi di passeggeri, nel 2035 6,54 miliardi e nel 2050 addirittura 10,04 miliardi. Con emissioni inquinanti destinate ad arrivare all’insostenibile quantità di 1,8 miliardi di tonnellate di anidride carbonica se non ci saranno interventi a favore di un “trasporto pulito” di persone e cose. I progetti sono numerosissimi. Si va da una differente forma delle ali a diversi sentieri di discesa verso gli aeroporti e a nuovi percorsi di volo. I più significativi riguardano le ricerche sul motore elettrico. Nel 2026 la compagnia norvegese Widerøe dovrebbe effettuare il primo volo passeggeri. Altri, Boeing in particolare, puntano sullo sviluppo della produzione di bio-kerosene. Una miscela che oggi ammonta a 100 milioni di litri l’anno, mentre per ridurre del 65% le emissioni ipotizzate nel 2050 ne serviranno 449 miliardi! Altri ancora puntano sull’idrogeno, con cui si stima un taglio del 65-70% dei consumi. Un beneficio che deriverebbe sia dallo sviluppo e l’utilizzo di nuovi velivoli pensati per quel carburante (Airbus ne ha già presentati tre modelli) sia dalla creazione di kit che permettano la modifica degli aerei esistenti, come quello allo studio di Universal Hydrogen, start up che ipotizza di far decollare i primi velivoli modificati già nel 2025.
Voli e produzione di CO2
Rinunciare all’aereo e alla produzione di 285 grammi di CO2 a persona per ogni chilometro percorso – come insegna Greta Thunberg – è un fattore di sostenibilità. Ma si scontra inevitabilmente con quel “dobbiamo”. Compensare le emissioni sostenendo finanziariamente progetti ambientali è oggi l’unico metodo per coniugare le due necessità ed è proposto – senza grande successo, va detto – dalla maggior parte delle compagnie.
Pensare il viaggio sostenibile
Il viaggio sostenibile però inizia a essere tale già dal momento in cui lo si ipotizza e lo si prepara. Informarsi su storia, cultura, economia, natura, religione e cucina della popolazione che vive nella nostra destinazione è determinante per cancellare aspettative errate e immagini stereotipate. Sia come ricordo di esperienze antiche – in Sudamerica, ad esempio, la samba non è il ballo di tutti i giorni – sia come immagini paradisiache proposte da Instagram.
È anche l’unica maniera per evitare il greenwashing, l’ecologismo di facciata, che ha portato a situazioni anche drammatiche. Come quella delle celebri “donne giraffa” dal collo avvolto da pesanti anelli di ottone, ridotte a vivere segregate in villaggi thailandesi che sono zoo umani per turisti. Oppure quella delle false riserve per primati in Namibia, dove si paga profumatamente per allattare un cucciolo di scimpanzé. E deve essere “sostenibile” durante il suo svolgersi, specie evitando le follie da selfie tourist, che, pur di avere lo scatto acchiappalike, finisce per danneggiare il monumento, il paesaggio, gli animali che era venuto ad ammirare.
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