Rainalda Torresini. Professoressa in pensione. Lettrice ad alta voce e attrice in una compagnia amatoriale. Con l’autobiografia cerco di fare un puzzle dai contorni chiari e definiti. Menzione speciale per la fotografia 2015, 2020. Farfalla d’oro per la prosa 2016 e Superfarfalla per la prosa 2017, menzione speciale per la poesia e segnalazione per la prosa.2018, Farfalla d’oro per la poesia 2019, Libellula d’oro per la poesia nel 2022.
Diciotto e trenta: ora fissata per la prova microfono, tre ore prima dello spettacolo.
Difficile ma non impossibile arrivare puntuale in centro sotto la Loggia dei Cavalieri, allestita a festa per la rappresentazione.
Impegnativo il mio ritorno alle scene dopo più di tre anni di assenza. Ho voluto rimettermi alla prova per realizzare forse l’ultimo canto del cigno prima della Debacle.
Parcheggio trovato ma non troppo vicino. Mentre m’incammino, vado spedita perché ho indossato scarpe comode, mentre quelle per la performance sono in una busta come la maglietta con incise tre bocche rosse, simbolo del mio racconto. Un colpo di fortuna averla trovata e indossarla per l’occasione. Chissà se il pubblico apprezzerà questa finezza, mi chiedo speranzosa.
Mentre cammino, un dubbio mi assale: ”Cosa mi manca?”
Sono sempre stata una “dimenticona” come mi suggerisce il mio cucciolo di cinque anni: “Nonna, scommetto che anche oggi ti sei dimenticata di prendere il cellulare!”
Ma stavolta no, penso tra me, soddisfatta, ma più mi avvicino al posto del ritrovo più mi assale il dubbio su quale sia l’oggetto tralasciato e quale importanza abbia.
“Boom!” improvviso un colpo al cuore, non un modo di dire ma un vero dolore al petto nella parte sinistra, una fitta che purtroppo conosco bene, m’invade.
Inveisco contro la mia persona. Parolacce impronunciabili per il mio difetto che mi rende estremamente nervosa e irascibile.
“Ma con chi me la voglio prendere? Sono io la colpevole! So che dovrei riempire lo specchio vicino alla porta di post-it per non lasciare a casa cose preziose per la mia vita fuori di casa.
Mi mancava la mia coperta di Linus, il pezzo di carta fondamentale: “L’unico foglio” con le frasi segnate dall’evidenziatore rosa, che adoro, e che mi ha aiutato a memorizzare in fretta il mio monologo, scritto anni fa, ma mai recitato.
“E adesso come faccio?” mi chiedevo.
Sapevo di aver studiato tanto e di saperlo bene a memoria. Ma, improvvisa era calata la nebbia nel mio cervello, una nebbia così fitta da non ricordare nulla. Nemmeno la prima frase, fondamentale per avviare il discorso!
Appena arrivata, mi chiamano per la prova microfono. Guardo l’orologio: sono quasi le sette!
Tocca a te, mi dicono. Mi sistemano un aggeggio che in passato non ho mai usato per recitare. Il regista lo deplorava: “Voce alta”, diceva, “vi devono sentire anche gli spettatori dell’ultima fila, anche senza microfono!.”
Ma lì, per sicurezza, all’aperto, contro il brusio della gente seduta ai tavolini del bar vicino o il rumore delle macchine che dovessero passare in strada, la cosa si rende necessaria.
E va bene, facciamo la prova con questo strumento che considero quasi un nemico.
Il tecnico mi suggerisce di pronunciare una frase a livello basso e poi una al massimo.
Panico! Che cosa devo dire? Mi chiedo.
Il muro di nebbia è sempre più fitto e mi blocca. Penso a una frase che esce come un pesce fuor d’acqua dalla mia bocca. So che non è quella giusta.
Panico sempre più profondo. Alzo la voce dicendo a caso una battuta non mia.
“Bene”, dice il tecnico. “A posto”.
Bene un corno! Penso io, cercando di frenare la crisi che mi sta prendendo mente e corpo.
No, penso, devo fare qualcosa per salvare la situazione. Qui ferma ad aspettare con il tremore non posso.
Chiedo all’organizzatrice se ha una copia del mio intervento e lei, carina, mi consegna un foglietto con il testo scritto a caratteri minuscoli, piccoli anche per chi ci vede benissimo, molto meglio di me.
“Puoi tornare alle 20,30”, mi dice, “Mi raccomando la puntualità.”
Mi allontano da quel luogo di supplizio con il mio foglietto, che risulta non essere l’ancora per la mia barchetta vacillante e che non mi aiuta per niente a restare a galla. Cercando in giro, trovo posto a sedere sulla panchina di marmo in Piazza dell’Università ma…scotta! Al sole per tutto il giorno è una stufa! No, non va bene! Devo andare a casa a recuperare il mio foglio.
Arrivo trafelata, lo cerco per tutta casa e alla fine lo trovo. Lo bacio: quelle righe nere sporche di rosa mi sembrano un dolce di panna pieno di gustose fragole.
Lo vorrei mangiare da quanto lo desidero e mi piace.
Leggo la prima battuta e rinasco. Il cielo si illumina di stelle preziose. La storia si dipana in pochi minuti e tutto ritorna a galla come tanta plastica che emerge nel mare aperto del mio cervello. Ripeto tutto per tre, quattro volte: “Sono pronta” e mi compiaccio.
Non mi accorgo che il tempo è passato e che è arrivata l’ora di andare. Sono già le otto, è venerdì, e la movida in città è già iniziata. Infatti, non riesco a trovare parcheggio.
Sono quasi disperata, giro come una trottola quasi con le lacrime agli occhi, finché mi ricordo di un posto speciale, un buco, ma è lontano dal centro ed io indosso le scarpe di scena, con il tacco, che non porto più da mesi, e devo correre, sono già le otto e venticinque. Arranco sempre di più, mentre mi sembra che la meta si allontani invece di avvicinarsi, scegliendo stradine mai fatte.
Ecco in lontananza vedo la Loggia. È zeppa di persone e tutti i miei compagni stanno per andare nel retroscena per il solito rito scaramantico prima dello spettacolo.
“Oh, finalmente sei arrivata!”, mi richiama dolcemente l’organizzatrice. In effetti, sono le otto e quarantacinque.
Io sono un lago di sudore, con un male terribile ai piedi ma con il mio prezioso foglio nella borsa.
La performance sta per cominciare.
Vedo tra il pubblico le amiche, cerco tra tutti mio figlio che, come al solito, ritarda. Vizio di famiglia, devo ammettere. Povero! Penso. Domani partiamo per il mare e lui si è impegnato a venire a vedermi per farmi un video. La cosa mi rassicura.
Siamo in dodici attori a recitare monologhi di autori vari e autoprodotti. Io sono l’ottava dopo un favoloso giovane con un monologo: “La quercia del tasso” Di Achille Campanile, che di sicuro sarà premiato. Ed io, mi chiedo, riuscirò a parlare, a ricordare tutto come quando ho fatto tante volte con i miei colleghi della Compagnia teatrale, quando il regista, mio marito, mi faceva entrare in scena cantando un’aria della Traviata e recitando poi un monologo scritto apposta per me nella commedia: “I pelegrini de Marostega” di Libero Pilotto? “Un bel cameo” ha apprezzato un critico nei miei confronti.
Allora: Eccomi!
I presentatori mi annunciano con il mio nome e il titolo: “La prima volta che…”, quello che ho scritto ricordando i tempi felici dell’adolescenza, beffando il momento scioccante del primo bacio.
Esco, m’inchino, tutto nero il pubblico, ma io so che là ci sono spettatori che conosco, altri che non mi hanno mai visto recitare, altri ancora che forse mi criticheranno.
Una bella responsabilità! Guai fare brutta figura!
È allora che la mia mente si apre come un sipario: mi rivedo all’università quando alla prima domanda, ricordavo tutto.
Io so che il pubblico è nelle mie mani, prima tremanti, ma ora sicure perché io so come gestirlo con le pause e le battute a effetto, imparate, in passato, grazie al mio maestro.
Tutto fila liscio con sorrisi e un applauso caloroso alla fine.
Il miracolo del palcoscenico si è realizzato ancora. Forse per l’ultima volta, ma che soddisfazione essere regista e autrice di me stessa!