Tiziano Treu fa parte del collettivo di autori che ha realizzato il volume “La popolazione anziana e il lavoro: un futuro da costruire”, a cura di 50&Più e Fondazione Leonardo. Dell’opera, che verrà presentata il 24 settembre al Cnel (Roma), ha curato – insieme a Claudio Lucifora – la parte sull’Active ageing, ovvero le politiche pubbliche e le prassi aziendali per l’invecchiamento attivo. Un capitolo che offre una visione sia storica che attuale sulla situazione italiana e sulle sfide da affrontare.
Di seguito l’intervista rilasciata a 50&Più di settembre su senior e smart working e arricchita da un ulteriore contributo video di Giada Valdannini.
Active ageing, politiche pubbliche e prassi aziendali per l’invecchiamento. Ecco le chiavi del futuro. Le uniche in grado di tenere unite le generazioni di fronte alla crisi economica
«L’età anziana è importante. Non solo non va marginalizzata, ma va resa attiva». A dirlo a 50&Più è il presidente del Cnel ed ex ministro del Lavoro, Tiziano Treu (nella pagina accanto, foto in basso, a sinistra), secondo il quale: «Non c’è più tempo da attendere: gli eventi legati al Covid sono stati drammatici per tutti ma, per gli anziani – che sono stati colpiti duramente dalla malattia – si è aggiunto un disagio aggravato da isolamento, sofferenza e scarsa attenzione». Quando ne usciremo, sottolinea Treu, «occorrerà che le sollecitazioni emerse in questo periodo non siano vanificate ma che, anzi, vengano accolte».
«Nel libro La popolazione anziana e il lavoro: un futuro da costruire (Il Mulino) – ci dice il giuslavorista – proviamo, appunto, a gettare lo sguardo avanti».
Presidente, il rischio che corriamo è che, finita l’emergenza Covid, il tema anzianità finisca nuovamente nel dimenticatoio. Non crede?
È possibile, ma va scongiurato. Certamente, durante questa lunga pandemia, si sono acuiti molti problemi tradizionali: dalla disoccupazione alla difficoltà delle imprese, per non parlare dei giovani. Loro, a differenza degli anziani, pare stiano meglio dal punto di vista dell’esposizione al contagio, ma il blocco delle attività li ha penalizzati direttamente. Ci sono dunque partite in ballo molto complesse, ma non va sciupata l’occasione di ragionare sul futuro dell’età matura.
In che modo?
Dal punto di vista meramente economico, gli anziani sono stati relativamente più protetti durante il lockdown. Sono cresciuti sì, i rischi per la salute, i problemi di isolamento, la solitudine, ma ciò che a mio avviso dovrebbe far riflettere è il rapporto con le nuove generazioni. Negli ultimi anni, l’anziano viene sempre più visto come un peso, tanto più che il numero dei giovani attivi è sempre minore. Una volta, il rapporto era buono, adesso ogni persona attiva deve sostenere 0,70 persone anziane. Cioè stiamo avvicinandoci a uno a uno.
In prospettiva, i bassi livelli di occupazione e la scarsa natalità non giocano di certo a favore…
Un Paese in cui il numero delle pensioni cresce e quello dei giovani e delle persone attive è al palo – o cresce poco – è un Paese destinato al suicidio. Già adesso le pensioni scricchiolano, solo per il fatto che sono alimentate di meno. Se continuiamo così, evidentemente il sistema pensionistico non tiene. Tanto più se si perseguono politiche sbagliate.
Si riferisce a Quota 100?
Tutto il mondo dice che per sostenere pensioni e welfare degli anziani occorre che ci sia una vita attiva lunga. Quindi occorre lavorare più a lungo, non meno. Se facciamo incentivi a che si lavori meno a lungo, capirete che siamo in un circolo perverso. Come se non bastasse, i giovani – che sono pochi – entrano nella vita attiva – e quindi sostengono gli anziani con i loro contributi – tardi. Occorre fare i conti col fatto che, rispetto ad altri Paesi, abbiamo un tasso di occupazione giovanile basso, molti Neet (giovani, tra i 15 e i 29 anni, che non studiano né lavorano, ndr) non occupati e chi arriva ad avere un lavoro stabile, con salari decenti, ci arriva magari a trentacinque anni.
Qual è dunque la strada da percorrere?
Va sostenuta la natalità, va dato lavoro ai giovani e occasione alle persone anziane di contribuire. Le politiche di Active Ageing, che sono anche testimoniate nel libro, mostrano che la vitalità degli anziani è diversa dal passato. Paesi avanzati come il Giappone hanno già stabilito l’età pensionabile a 70 anni, altro che Quota 100. È l’unica se si vuole reggere di fronte al declino, altrimenti andiamo verso il collasso e si viene meno a qualsiasi patto generazionale.
Come si fa ad agevolare la permanenza degli anziani nei posti di lavoro?
È possibile valorizzando le doti che hanno e migliorando la qualità del lavoro. Bisogna anche che le imprese si adattino trasformando l’organizzazione e partendo dagli orari. Se continuiamo coi pensionamenti anticipati, è come dire alle aziende: “Cacciate gli anziani non appena potete che così prendete i giovani, magari in modo precario”. Ma questo è un suggerimento antisociale, tant’è che le imprese lungimiranti hanno capito che si può valorizzare la vita attiva degli anziani anche nel lavoro.
In un simile processo di trasformazione, che ruolo può giocare lo smart working per gli anziani?
Prima della pandemia lo smart working era un fatto di nicchia. Può essere uno strumento utile. Il problema è come lo usiamo? Lo smart working non è lasciare qualcuno a casa a dormire sul divano. Se si fa bene, è una vittoria di tutti; se lo si fa malamente, può essere un rimedio parziale. Io, però, sono abbastanza fiducioso che migliorerà e che sia una buona carta anche per i senior.
Come si fa a parlare di “occupazione senior” di fronte a tassi di disoccupazione giovanile crescenti?
L’espressione propagandata da chi ha prodotto Quota 100 è: “Gli anziani portano via il pane ai giovani. Se mandiamo via un anziano, entra un giovane”. Punto primo: questo non è mai stato vero. Le qualità di una persona anziana, infatti, e quelle di un giovane sono diverse e non sostituibili. Rendere compatibili le esigenze degli anziani con la legittima ricerca di stabilità dei giovani è la vera sfida.
Con quali politiche la si persegue?
In molti Paesi c’è l’uscita dalla vita attiva in modo graduale e sono gli stessi Paesi in cui c’è un’entrata graduale dei giovani tramite apprendistato. L’unico modo per tenere assieme le esigenze e non fare una lotta tra padri e figli è crescere in modo sostenibile. Quindi, Paesi che crescono in modo ragionevole da anni hanno attuato meccanismi di questo tipo. E sono almeno dieci anni che l’Europa ha lanciato questa prospettiva, già raccolta dai nostri vicini francesi e tedeschi. Bisogna che le aziende vengano aiutate nell’affrontare questa transizione facendo leva, per i senior, su un buon uso, per esempio, del part time concordato mentre, contemporaneamente, si comincia a fare entrare gradualmente un giovane. Occorre costruire un habitat culturale che permetta questa staffetta.
In che direzione dovrebbe andare una riforma del sistema pensionistico?
Serve un’uscita flessibile. Che senso ha parlare di uscire a Quota 100, 101? Non tutti invecchiano allo stesso modo e quindi si dia al singolo una fascia, un range di età in cui lasciare. Dai 65/70 anni, ad esempio – a seconda della situazione di salute, del tipo di lavoro -, si può scegliere se ritirarsi: il che avrà un peso diverso sulla pensione. Cioè, se uno esce prima, avrà una pensione relativamente più bassa e, se uno esce a settant’anni, avrà una pensione più alta.
L’evento di presentazione del volume si svolgerà il 24 settembre, alle ore 11.00, presso la Sala Gialla del Cnel, e sarà l’occasione per riflettere sul sistema dei servizi, la normativa e i modelli di welfare dedicati al lavoratore in età anziana.
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