Tiziana Michelini. Mi piace scrivere e fotografare. Lo faccio per passione cercando di cogliere e trasformare in parole o immagini ciò che mi attrae o stimola la creatività. Sono stata commerciante per tanti anni e il contatto col pubblico ha favorito la raccolta di storie e avvenimenti che ora mi piace trasformare in racconti. Partecipa al Concorso 50&Più per la quarta volta; nel 2019 ha ricevuto la Menzione speciale della Giuria per la prosa e nel 2020 la Farfalla d’oro sempre per la prosa. Vive a Carpi (Mo).
Rigiro tra le mani un piccolo oggetto arrugginito. È un ometto meccanico riemerso casualmente dall’oscurità di una cantina allagata. Mi commuove e intenerisce ogni volta che lo guardo.
Un ricordo: una dolcissima ragazza alla quale ho dato un milionesimo di quello che si meritava mi guarda dal finestrino di un treno. Ha due occhi troppo sinceri e buoni per reggere a lungo lo sguardo. Io sono lì, nervoso e imbarazzato, con addosso una tremenda mancanza di libertà che forse si manifesta con freddezza, indifferenza, distrazione e chissà quante altre cose che le hanno fatto male.
Sta piovendo da giorni oramai e anche oggi piove. I lucernari della cantina, allo stesso livello del marciapiede esterno, non hanno retto al forte acquazzone della notte. La cantina è al piano interrato e si è allagata; ci vorrà l’intervento di un aspiratore per svuotarla. Questa mattina sono sceso per verificarne il danno. L’acqua arrivava al bordo degli stivali di gomma che avevo indossato e che strascicavo smuovendo tutto ciò che galleggiava: vecchie riviste, pezzi di compensato gonfio, sedie di paglia ribaltate, inutilità ammassate nel tempo che non ricordavo nemmeno più di avere avuto. Quante cose si accumulano negli anni!
Avanzavo circospetto col timore di calpestare qualcosa di fragile, senza sapere cosa, affondato nell’acqua. Poi, in un angolo remoto e poco illuminato, l’ho vista. Ne affiorava soltanto il coperchio che galleggiava ondeggiando ai miei passi. La scatola di cartone era sommersa, inutile lo scatto per estrarla dall’acqua con l’intento di evitarne il deterioramento. Delusione. O forse sollievo nel constatare la quasi dissoluzione del suo contenuto; non rimaneva che un ammasso informe di color malva, brandelli di pagine che l’acqua piovana aveva reso illeggibili diluendo l’inchiostro in macchie scure. Solo qua e là, riconoscibili appena, alcune parole di senso compiuto. Parole che avevano scandito la nostra amicizia e che ora riaffioravano all’improvviso, galleggiando su quella alluvione. Illeggibili dagli occhi ma non dal mio cuore che batteva all’impazzata per l’emozione. In quella scatola dimenticata da decenni avevo riposto, o dovrei dire nascosto, tutta la mia vergogna.
Con le mani nude rovistavo nell’acqua gelata in cerca di qualcosa che sapevo avrebbe dovuto essere insieme alle lettere. Un piccolo pupazzetto di latta e una foto sfocata già a quel tempo con impressa una persona vagamente riconoscibile in primo piano. Sono risalito sconsolato, stringendo il pupazzetto nel pugno di una mano. Si chiamava Eliana, si firmava Ely. Io Max.
Ci eravamo conosciuti per corrispondenza. Usava a quei tempi cercare amici scegliendo a caso un nome e un indirizzo su di una rivista, Topolino, Lancio Story, spinti dalla curiosità di ricevere risposta e stupirsi che poi arrivasse davvero. Amici di matita. Mi aveva scelto lei: “vivo in un piccolo paese di campagna ma adoro la città, la grande città”. Io abitavo a Milano. Le avevo risposto subito. Ero molto giovane e mi eccitava l’idea di corrispondere con una persona di sesso opposto, forse proprio per indagare più in profondità nell’animo delle ragazze.
Lei frequentava una scuola professionale per disegnatori di moda e di lì a poco sarebbe entrata in fabbrica, io ragioneria.
All’inizio ci si scriveva banalità: per che squadra tifi, quali sono i tuoi film preferiti, come vai a scuola o cose del genere.
Allora i miei rapporti con le ragazze erano ancora timidi e impacciati. Qualche carezza, qualche bacio ottenuto a fatica, tante parole e tante figure di merda. Ci scambiavamo lunghi racconti sulle nostre rispettive conquiste e delusioni. Lei aveva già fatto sesso, io no, “aspettavo il momento magico”. Questo le scrivevo. In verità sotto questo aspetto lei era più grande di me. Io nei suoi confronti mi sentivo un bambino imbranato ma agognavo il momento in cui sarebbe successo. Mi vedevo grande domani.
Qualche rara foto sempre un po’ sfocata: i rullini che prendevano luce, il tempo per lo sviluppo. Io le mandavo quelle venute meglio, lei mi prendeva in giro dicendo che somigliavo a sua zia Carlotta.
“Poi rimandamele, che mia madre deve metterle nell’album”.
“Prima o poi ne faremo una insieme”.
Ad un certo punto ci eravamo accorti che la quotidianità nei racconti faceva da contorno, a volte fastidioso, alla nostra interiorità. Sentimenti difficili da esprimere altrove, venivano liberati su quelle pagine sempre più colme di emozioni. Prima velate poi più decise e sconvolgenti. Era una gara a scoprirsi di più. Le sue parole erano belle, vere, emozionanti. Erano per me solo e le immagini che creavamo di noi erano dolcissime e caste: ora camminavamo fianco a fianco in una spiaggia al tramonto, ora eravamo nel lettone dei miei ed io le accarezzavo i capelli. Mi sarei addormentato io per primo, le scrivevo, ma solo tenendole la mano.
Parlavamo d’amore e non ci eravamo mai visti: “vorrei essere al buio con te perché non mi serve vederti per capire che ti voglio bene, tanto sai”. E lei a me: “tu non potresti piacermi o non piacermi, a te dovrei solo abituarmi materialmente, alla tua presenza fisica, insomma, dopo sarei sempre io, felice di poter essere ciò che scrivo e che sento”.
Amavamo l’amore, l’essere innamorati. Avevamo scoperto che si possono amare più persone contemporaneamente e in modo diverso. “Non c’è un solo modo di amare” scrivevamo, “sono infiniti!”. Il nostro era immaginario.
Eppure, quella inconsistente realtà era un’emozione forte. Avevo la frenesia di ricevere le sue lettere, la frenesia di scriverle. Affrancare la busta e imbucarla era l’inizio di una spasmodica attesa. Qualche rara telefonata quando finalmente a casa mia installarono un telefono fisso. Lei andava in un bar, mi chiamava e costava tantissimo. “La nostra fantasia ha i gettoni contati”, diceva.
Mi piacevano i suoi pensieri, le sue parole. Un’amicizia così, sempre con la voglia di vederci, di toccarci, di respirarci, di vivere un po’ di vita insieme, quello che ci mancava insomma, valeva la pena di essere vissuta solo molto intensamente. Come un’eccezione. “Il nostro è un amore scritto ma troppo atipico per poterlo scrivere. Viviamolo così come viene, non morirà mai comunque sia”.
Poi la naja. Dodici mesi di sospensione. Il CAR a Bari prima, il distretto Militare di Treviso poi. Dodici lunghi mesi lontano da casa, dagli amici, dagli affetti, dalla vita vera. Quello era il tempo della simulazione. Mi fingevo adeguato, tenevo duro; prima o poi sarebbe finita. Una domenica mattina la sorpresa: una visita per il soldato semplice Massimiliano Bonaretti”. Non aspettavo nessuno, chi poteva essere? “Eliana di Forio in portineria”.
Feci le scale di corsa pervaso da una febbrile e emozionata curiosità. Eliana? Possibile? Senza nessun avvertimento? Proprio lei?
Una figura controluce. “Ely?” si voltò verso di me e volò tra le mie braccia. La stringevo forte, ma più forte mi sentivo stretto. Rimanemmo avvinghiati a lungo, senza parlare. Solo i nostri cuori che battevano all’unisono. Non avevamo bisogno di parole, quelle le sapevamo, erano già state scritte.
“Aspettami fuori, il tempo di firmare la licenza e ti raggiungo”. Solo allora, mentre si allontanava da me l’avevo seguita con lo sguardo ancora imbambolato per l’emozione. Era bella, prosperosa, bionda senza essere eccessiva. Il passo fiero faceva ondeggiare la gonna del corto vestitino azzurro. Sandali di corda legati al polpaccio. Anche gli altri militari presenti nell’androne si erano girati a guardarla. La mia Ely quella lì? Un vero colpo di fortuna.
Poi via di corsa con lei, la mia bella amica. Ci eravamo fermati al primo bar per un caffè e subito dopo una lunga passeggiata fino al mare. Conoscevo un posto isolato, il mio covo segreto: un piccolo pezzo di spiaggia nascosto da un canneto dove mi rifugiavo ogni volta che desideravo isolarmi o scrollarmi di dosso quella condizione di vittima che forzatamente subivo. Lei mi aveva seguito docile, mentre io quasi la trascinavo, bramoso di stare solo con lei. Lei, una ragazza vera, io un militare. In quel momento avevo sospeso ogni senso della misura, un pensiero fisso aveva preso il sopravvento e mi martellava il cervello: fare l’amore con lei.
Nel canneto seduti davanti al mare le avevo accarezzato il viso, lei aveva sorriso. Subito dopo mi ero avventato su di lei con una furia che non conoscevo. La dolcezza, la tenerezza tante volte immaginata e scritta era venuta a mancare mentre mi accanivo sul suo corpo per eliminare ogni barriera che mi impedisse di penetrarla. Non era Ely sotto la mia bramosia, non la mia carissima amica, ma una donna qualsiasi come quelle nelle fotografie appese negli armadietti dei miei compagni, troppo nude e troppo belle per essere vere. Lei invece era vera ed era lì per me. Finalmente avrei avuto anch’io una scopata da raccontare, la mia virilità era salva.
Finita la furia rimasi immobile, dentro e fuori di lei, svuotato del mio stesso ardore. Un lungo istante senza sapere chi fosse e cosa ci facesse lì. Senza sapere chi fossi e cosa avessi fatto. Cosa le avevo fatto.
Ho sentito il mio viso avvampare come un bambino dopo una figuraccia, tenevo gli occhi bassi per il timore di incontrare i suoi. Mi ero alzato tendendole la mano. “Stai bene?”, solo questo le chiesi sottovoce. Da parte sua solo un sospiro. In silenzio ci eravamo ricomposti. Concentravo tutta la mia attenzione alla fibbia dei pantaloni come fosse stata la cosa più importante.
L’avevo accompagnata alla stazione, in silenzio e in quel silenzio mi era sembrato di sentire un singhiozzo, forse dentro di lei piangeva. Tutto questo non lo avevamo mai scritto.
Era salita sul treno. Ho aspettato che si affacciasse al finestrino. No, non piangeva. “Meno male” pensai con sollievo. D’altra parte, era stata lei a cercarmi. Sapevo di avere stampato sul viso un sorriso ebete. Il suo era lieve ed enigmatico. Ma ecco che il treno stava per partire. Per un attimo mi era sembrata una liberazione, non dovevo più vincermi, sforzarmi, fingere. Aveva allungato la mano verso di me, nell’intento di salutarmi, pensavo. Forse di accarezzarmi o magari di perdonarmi. In quella mano serrava un piccolo oggetto che ripose nelle mie protese. Mio Dio non doveva farlo! Mi sentivo un verme, l’avevo strumentalizzata. Ero militare e avevo bisogno di una ragazza con cui fare l’amore per una questione di rivalsa, di sfogo ma certo questo non giustificava il mio comportamento. Avevo tradito la mia meravigliosa amica Ely con la ragazza Ely e non lo meritava. Lei con quel gesto mi aveva schiacciato.
Il treno era partito. Io, solo sulla banchina, rigiravo incredulo tra le mani quel minuscolo giocattolo a forma di robot. Si caricava a molla e scalpitava velocemente le gambette emettendo un sibilo che durava tutto il tempo della carica. Che senso aveva, mi chiesi riponendolo nella tasca mentre rientravo in caserma.
Il rimorso mi ha paralizzato. L’ho evitata, non ho mai risposto alla cartolina che mi aveva mandato qualche tempo dopo il fattaccio. Meglio privarla di uno che ha saputo essere così meschino e traditore, avevo pensato.
Ora, dopo tanti anni, sento di avere pagato abbastanza. Sento il bisogno di rispondere a quella cartolina per chiederle scusa. Per dirle che quell’ometto meccanico è qui tra le mie mani. Funziona ancora, cammina, non ha mai smesso di saperlo fare. Per chiederle di accettare il ritorno di un vecchio amico perché in fondo il nostro è stato un amore scritto ma troppo atipico per poterlo scrivere e non morirà mai, comunque sia.
Prendo in mano una penna e scrivo: Cara Ely, sono Max….