Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Terza Sezione Penale, Sentenza 38485/2019) ha fornito un interessante sviluppo nell’interpretazione della pratica sempre più diffusa nei centri commerciali di installare attrezzature tecnologiche per svolgere test diagnostici.
Tutto è nato dalla seguente vicenda: in un centro commerciale di Roma i Nas, i Nuclei antisofisticazione dei Carabinieri, sequestrano apparecchiature tecnologiche per svolgere attività diagnostiche che, sia secondo l’autorità giudiziaria che il tribunale del riesame (cui erano ricorsi i legali della società erogante le prestazioni), erano svolte senza l’autorizzazione regionale del caso.
In pratica, era stato violato l’art. 193 del TULS (Testo Unifico Leggi Sanitarie). Questa la tesi del Tribunale che, pur sostenendo che la struttura nel centro commerciale svolgesse servizi di telemedicina e che la prestazione sanitaria venisse erogata, essendo paziente e medico in località diverse, ribadiva la necessaria pre-condizione di una autorizzazione regionale. Il Tribunale aveva fondato la sua decisione sul fatto che l’erogatore del servizio fosse in realtà la struttura ubicata nel centro commerciale, non solo perché così appare presso i potenziali clienti (c’è un listino prezzi con l’indicazione della struttura e l’elencazione dei servizi diagnostici erogati), ma anche perché l’acquisizione e la trasmissione dei dati sanitari avveniva, presso la struttura, tramite l’intervento dell’infermiera dipendente.
Di parere opposto però la Cassazione, anche in base alla giurisprudenza consolidata, la quale sino ad ora ha ritenuto necessaria l’autorizzazione regionale allo svolgimento di attività sanitarie (ex art.193 del TULS) quando nella struttura, con una finalità imprenditoriale e non solo libero professionale, siano erogate prestazioni “tipicamente sanitarie” come la somministrazione di farmaci o un’assistenza medica e infermieristica, legate anche a strutture a carattere residenziale o ancora di medicina estetica, dermatologia od odontoiatria. Al contrario, non si possono qualificare atti tipicamente sanitari quelli che non comportano lo svolgimento di attività organizzativa, né gli atti in cui è lo stesso paziente ad acquisire i dati anamnestici con l’utilizzo di strumenti comunemente detti di autodiagnosi (come la rilevazione operata dallo stesso soggetto interessato della propria temperatura corporea ovvero del peso o della pressione arteriosa, sistolica e diastolica).
Nel caso considerato, per la Cassazione «si è, in sostanza, di fronte a quel fenomeno, comunemente definito di “telemedicina”» che si caratterizza in quanto, per la realizzazione di talune pratiche mediche, per lo più diagnostiche, non vi è la necessaria compresenza nello stesso luogo del paziente e dell’operatore sanitario, operando quest’ultimo sulla esclusiva base di dati a lui pervenuti attraverso tecnologie informatiche il cui utilizzo, appunto, consente lo svolgimento di atti medici anche “fra assenti”.
In sintesi: quando presso la struttura del centro commerciale viene semplicemente raccolto il dato anamnestico, ma questo non viene assolutamente elaborato, non può dirsi, secondo la Cassazione, che sia stata eseguita alcuna prestazione “tipicamente sanitaria” e non si incorre, dunque, nell’obbligo della autorizzazione regionale per lo svolgimento di tale attività.
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