Adriano Tagliapietra.
Maestro del Commercio, Aquila di diamante, ora in pensione. Autore di poesie e di racconti in dialetto veronese e in italiano. Socio del Cenacolo di Poesia dialettale “Berto Barbarani” di Verona, città in cui vive. Ha pubblicato due libretti di poesie in dialetto e due in italiano. Partecipa al Concorso 50&Più dal 2000, riceve la Menzione speciale della Giuria per la prosa nel 2009 e 2014 e nel 2017 vince la Farfalla d’oro sempre per la prosa; nel 2012, 2017 e 2018 riceve la Menzione speciale della giuria per la poesia.
Stefano: era un ragazzino sempre pronto a far dannare le maestre: era molto bravo, aveva buoni voti in tutte le materie ma il più brutto voto in condotta di tutta la classe. Aveva undici anni quando frequentava la quinta elementare. Abitava in una frazione di montagna A scuola ci doveva andare a piedi. Per la strada erano sei kilometri, mentre per le scorciatoie su per i boschi almeno tre, ma tutti in salita.
Era l’anno scolastico 1939/40. Tutte le mattine lo svegliavano alle sei: scaldava una grossa tazza di latte sul fornelletto a spirito, due pagnotte in tasca per merenda, e dopo una bella oretta di sassosi sentieri, arrivava a scuola. Ed era quasi sempre uno dei primi. Stefano era uno spirito libero ed anche un po’ “ribelle”. Amava lo studio, ma non gli piaceva la disciplina, a star seduto sui banchi di scuola si sentiva come un cane legato alla catena. Per questo, quando finite le lezioni usciva, non andava di corsa a casa, ma girava per i boschi, ed arrivava a casa che ormai era sera. Cambiava molto spesso itinerario per tornare. Specialmente se era bel tempo.
Un giorno scese per una stradina sterrata si trovò in una piccola contrada. Tre case, tutte bianche appiccicate una all’altra. Quelle case di montagna con le mura spesse, dai tetti di pietra e dalle finestre piccole e con il pozzo per l’acqua piovana Una tipica abitazione dei popoli “Cimbri”. C’era un bel solicello caldo quel giorno, anche se era fine ottobre. Seduto su uno scalino di pietra fuori dall’uscio della casetta bianca, c’era un ragazzo biondo che con una roncoletta in mano stava intagliando la contorta radice di un ceppo di faggio, e si fermò a guardarlo.
“Ciao”, gli disse e, curioso com’era, gli chiese cosa ne facesse di quel pezzo di legno che stava incidendo con quella roncoletta.
“Ciao”, disse l’altro, “mi chiamo Domenico. Ma tutti mi chiamano Micolo; mi puoi chiamare Micolo anche tu se vuoi. Vedi, da questa radice sto per levare dal suo interno un cavallino. Non lo vedi che dentro c’è un cavallino? Basta tirarlo fuori, non vedi che è lì che aspetta?”.
Stefano allungò l’occhio per vedere il cavallino, ma non vide che un faggio. Penso tra sé e sé: ma guarda che tipo strano è sto ragazzo, io proprio non ci vedo niente… Appena per educazione gli disse: “Io sono Stefano, sto per tornare a casa da scuola, sono passato di qui per caso”.
A Micolo al solo sentire che Stefano andava a scuola, si accesero gli occhi di invidia, e lo invitò ad entrare in casa. “Ti faccio vedere tutti i miei lavoretti, fatti con le radici delle piante che mio nonno Anselmo e mia mamma mi portano dai boschi”. Ma quando fu il momento di alzarsi, Stefano si accorse che il ragazzo non poteva usare le sue gambe, si appoggiò allo stipite della porta, per tirarsi su, e nell’angolo vicino alla finestra andò a prendersi le stampelle. Stefano voleva aiutarlo ma lui, con un gesto della mano, rifiutò.
“Grazie”, disse, “devo arrangiarmi da solo. La mamma mi ha detto che devo abituarmi per quando sarò guarito. Perché io sono certo che guarirò, e lo spero tanto…”.
In casa, sopra degli scaffali, c’era quasi tutta la sua produzione di statuine, di animali, ed anche fiori, tutti fatti da lui. Il più bello di tutti era un Presepe, con Gesù Bambino, San Giuseppe, la Madonna, i pastori, le pecorelle, ed un tronchetto, nel quale aveva scolpito in un pezzo unico, tre bambini seduti sul medesimo tronco, ma fatti a mano, usando solo una sgorbia, una raspa e la sua magica ed affilatissima “roncoletta” dal manico di corno. Mentre Stefano era incantato davanti a tutto questo, Micolo gli diceva: “Beato te che vai a scuola. Io ho 12 anni, e fino a due anni fa mio padre, mi portava lui a scuola: mi caricava sulla mula, e d’inverno mi metteva una sciarpa. Dopo veniva a prendermi. Così ho finito la quarta. Ora mio padre è stato richiamato alle armi, mio nonno è troppo vecchio, e mia madre ha tanto di quel lavoro! Tra le mucche da mungere, il latte da portare al casello, la casa e la Kati da curare: non le rimane un minuto per me. E così basta scuole. Mio nonno Anselmo dice che è sufficiente saper fare la propria firma, leggere e fare i propri conti. Tanto più per me che da piccolo mi ha preso la “Poliomielite”, che mi ha reso le gambe inutilizzabili. Mi farebbe tanto piacere andare a scuola ma nessuno mi ci porta. Ma quando sarà guarito vedrai che corse! Ci andrò da solo a scuola… Per adesso leggo i libri che mi porta Don Gaetano, e faccio quelle statuine con la roncoletta che mi ha regalato il mio padrino alla Cresima”.
Stefano era là, zitto e meravigliato da quanto raccontava quel ragazzo, tanto bravo quanto sfortunato, anche perché proprio non sapeva cosa dire. Era imbarazzato, disse solo: “ora devo andare. S’è fatto tardi, vado a casa. Devo anche fare i compiti… Ma verrò ancora a trovarti. Ciao”.
Lungo la strada verso casa, Stefano non poteva non pensare a quel ragazzo biondo, alla sua volontà, alla sua forza d’animo. alla smisurata speranza di guarigione. Ci fu bel tempo tutta la settimana, e Stefano, quando usciva da scuola, passava a salutare Micolo. Fra questi due adolescenti era nata una vera amicizia, fatta di stima e del piacere di stare assieme. Se pur Stefano aveva un carattere un po’ “ribelle” che non accettava di farsi comandare da nessuno, con quel ragazzo era dolce e gentile. Quando usciva da scuola e passava dalla contrada, era certo di trovarlo sulla stradina, appoggiato alle lastre ad aspettarlo, per chiedergli cosa avesse fatto a scuola. Era chiara la sua volontà di voler essere, così, indirettamente uno scolaro della quinta elementare.
Per tutto dicembre, fino alle vacanze di Natale fecero assieme i compiti. A casa diceva che rimaneva al doposcuola, mentre invece restava a mangiare da Micolo. Durante le vacanze di Natale nevicò molto: c’era mezzo metro di neve, ma Stefano andava vicino alla stufa che lo aspettava. Talvolta, nonostante la neve lo trovava sulla stradina per vederlo arrivare. Il Parroco, Don Gaetano, si diede da fare ed ottenne di poter far fare a Micolo gli esami da privatista. Così, il giorno degli esami, Stefano e tutta la classe andarono a prenderlo, e su di un carrettino lo portarono a scuola. Micolo ne fu felice, e ringraziava tutti per quanto facevano, ma non si scordò di ricordar loro che se fosse guarito, sarebbe andato a scuola da solo. Fu promosso e felice si portò a casa il suo bel diploma di “quinta”.
Stefano, da quell’amicizia ne trasse un beneficio interiore. Da tanto “estroso” e “ribelle” era diventato gentile e servizievole. Quel ragazzo invalido lo aveva “maturato”. Durante l’estate andò a trovare Micolo, e mentre lui intagliava statuine di legno, seduti sullo scalino di pietra davanti casa, parlavano fra loro per delle ore. Poi con un abbraccio si salutavano.
A fine agosto, Stefano gli disse che la sua famiglia si sarebbe trasferita. A suo padre era stato offerto un posto di stradino all’anas. Un posto migliore di quello che aveva, avrebbe avuto anche la casa. Avrebbe guadagnato di più, e ne era ben felice, per questo si sarebbero trasferiti giù, nella bassa mantovana.
“Non mi ricordo il nome della località”, disse, “te lo farò sapere”.
Fu una notizia tremenda per Micolo, poiché perdeva un amico che lo sapeva comprendere, il quale trasformava le lunghe ore di solitudine in ore liete. Addolorato, prese le stampelle e sparì in casa. Stefano rimase seduto sul bordo dell’abbeveratoio, consapevole di aver dato una notizia non gradita e, addolorato, stava per andarsene.
Lo fermò la voce dell’amico, “vieni in casa, ti devo dare una cosa”, disse, “questo è un regalino che ti voglio fare, in segno della nostra amicizia, e della compagnia che mi hai fatto per tutti questi mesi”. In un cestino di corteccia di castagno, coperti dalla paglia, c’era quella scultura che tanto piaceva a Stefano: quel tronchetto con i tre bambini seduti, e con meraviglia la “roncoletta” dal manico di corno che usava per le sue sculture.
A Stefano sembrò troppo quel regalo, ma lo accettò come ricordo della loro amicizia. Micolo gli raccomandò di scrivergli e di fargli sapere dove sarebbe andato. Con una grande commozione si salutarono. Senza immaginare che non si sarebbero visti mai più.
Era il ’49 e Stefano, diplomato ragioniere, lavorava con suo fratello Filippo che produceva mobili. Il lavoro lo occupava tantissimo, ma molto spesso pensava far visita al suo amico Micolo. L’occasione ci fu nel 1956 quando, qualche mese prima di sposarsi, prese la 500 “giardinetta” della ditta, e con la futura sposa andò lassù in quella contrada, in montagna, per presentargli la “morosa” ed invitarlo a nozze. La contrada era deserta, le case erano tutte desolatamente chiuse. Andò dal parroco per avere informazioni: Don Gaetano da tempo era morto, ed il nuovo Parroco non sapeva nulla. Solo il sacrista disse che la famiglia di Micolo se ne andò, circa negli anni ’51/52, e che aveva affittato una casa in campagna in provincia di Cremona o di Mantova. Di più non sapeva. Dato che forse era nella sua stessa provincia, cercò di fare qualche ricerca, ma gli mancava il tempo.
Chissà dov’era, in che zona, e come fare per ritrovarlo? Chissà se ancora faceva sculture in legno. Quel ragazzo che gli aveva inconsciamente dato lezioni di tenacia e di sopportazione; l’amico che con tutte le sue forze credeva di guarire da un male, che solo un miracolo avrebbe potuto guarire. Nella sua nuova casa Stefano volle riservare un posto, su un mobile della sala, a quella scultura he il suo sfortunato amico gli aveva regalato, assieme alla preziosa “roncoletta” dal manico di corno. Passarono molti anni e Stefano, nonostante qualche ricerca, non riuscì a ritrovare il suo amichetto della quinta elementare.
Non aveva perso però quel suo carattere di “zingaro”; gli piaceva girare per i mercati di paese, magari per concludere qualche affare. Fu così che qualche giorno prima di Natale del ’68, in un paesotto in riva al Po, passando tra i banchi dove smerciavano cianfrusaglie, restò come fulminato dalla sorpresa e dal piacere. Riconobbe immediatamente una scultura in legno: era quel presepe che il suo amichetto Micolo aveva “estratto” da una radice di faggio tanti anni fa, lassù in montagna, in quella casa col tetto di pietra.
La domanda venne spontanea: “Chi le ha dato quella scultura? E’ tanto che lei ce l’ha in vendita?”.
Il venditore rispose: “Me l’ha data due settimane fa un signore che si sposta con una carrozzina. M’ha detto che verrà dopo Natale per vedere se l’ho venduta”.
“Bene”, gli disse Stefano, “la compro io, non m’importa quanto costa; però quando viene, per favore, mi faccia una telefonata. Questo è il mio numero. Lo faccia aspettare, oppure si faccia dire dove abita. E’ molto importante per me. Non se ne dimentichi”.
Era il penultimo giorno dell’anno e c’era un nebbione nel quale non ci si vedeva nemmeno a bestemmiare, quando telefono di Stefano squillò. “Pronto!”. Dall’altro capo il venditore di cianfrusaglie disse: “C’è qui quel signore con la carrozzina. Se vuole vederlo venga subito, lo faccio aspettare”.
Per fare 50 kilometri con quella nebbia, ci voleva almeno un’ora. “Vengo subito”, disse. E partì. Arrivò al mercato che era quasi mezzogiorno.
Il venditore disse: “Se ne è andato un’ora fa. Aveva freddo. Mi ha detto che abita in fondo al paese. Un centinaio di metri dopo il terzo incrocio, giri a destra. Abita proprio nella casa colonica gialla”.
Solo il tempo di salire in macchina, e Stefano era già in fondo al paese. AI primo incrocio vide i Carabinieri dirigere quel poco traffico che ci poteva essere in un giorno di nebbia di quegli anni. C’è un’auto di traverso e una carrozzina rovesciata. Lì vicino una coperta copriva un corpo. Un brivido di freddo e di terrore attraversò l’anima di Stefano, un triste presentimento lo prese. Si precipitò verso quella coperta e ne sollevò un lembo: con raccapriccio riconobbe il suo amico Micolo. Riconobbe il suo volto, anche le sue gambe erano ancora quelle di quando era un ragazzino di quinta elementare. Inservibili. Era davanti a quel corpo senza vita e con il nodo che gli stringeva la gola, non poteva dire nulla, ma pensava a quanto aveva cercato il suo amico e il destino glielo aveva carpito.
Dopo una breve preghiera, e con le lacrime che gli uscivano dal cuore, si voltò verso quel corpo immobile e disse: “Ciao! Ciao Micolo, amico della mia infanzia. Ecco, ora la tua speranza di guarire è diventata realtà. Ora potrai correre nelle praterie del cielo con le tue gambe. Finalmente sei guarito… Addio!”.
Ed ancora stravolto, girò la macchina e sparì nella nebbia della bassa mantovana.