Qualche giorno fa Lili Sedghi, una giovane donna di Stoccolma, riceve una telefonata che non avrebbe mai voluto sentire. Dall’altra parte dell’apparecchio la voce di una infermiera la informa che suo padre Reza non c’è più.
Reza è una delle 3.698 persone sopra i 70 anni decedute nel Paese a causa del Coronavirus e, come molte di loro, era ospite di una casa di cura. Ciò che più tormenta Lili è sapere che suo padre è stato lasciato solo, senza l’assistenza di un medico e senza nessun familiare accanto.
Lockdown? No, grazie
In Svezia più della metà dei decessi di anziani imputabili al Coronavirus sono avvenuti nelle case di cura. Il Paese ha adottato una strategia differente da ogni altro Stato europeo, limitando notevolmente il lockdown, a favore del principio di auto responsabilità.
«Siamo adulti e dobbiamo agire da adulti»: con queste parole il primo ministro Stefan Löfven si è rivolto alla Nazione per annunciare l’inizio della crisi. «Nessuno sarà lasciato solo, ma ciascuno di noi ha una grande responsabilità», ha precisato.
Il Governo, infatti, tenendo conto anche di diversi fattori – quali la scarsa densità abitativa e la diffusione del modello di famiglia mononucleare – ha ritenuto di non dover chiudere le attività. Pertanto, ha tenuto aperti bar, ristoranti e persino le scuole primarie.
Nel contempo ha raccomandato alla popolazione il rispetto del distanziamento sociale e delle regole di igiene. Ma solo il 31 marzo è stato introdotto il divieto di visita nelle case di cura. Questo tipo di strutture, a differenza di quanto accade in altri Paesi, sono spesso costituite da complessi ampi, con centinaia di ospiti. Molti degli anziani residenti appartengono alle fasce più povere e più deboli della popolazione. Questo dà luogo a “gruppi molto vulnerabili”, almeno secondo le parole dello stesso ministro per la Salute e il Welfare, Henrik Lysell.
Case di cura svedesi: cosa non ha funzionato?
Kommunal, il sindacato a cui sono iscritti molti operatori sociali, ha lamentato più volte la difficile situazione di precariato in cui versa il personale delle case di cura. A marzo scorso il 40% di loro, nella sola città di Stoccolma, era composto da lavoratori non qualificati, con contratti a termine, pagati ad orario e privi di ogni sicurezza sul lavoro. Il 23%, invece, sono lavoratori a tempo determinato. Spesso stranieri. In altre parole, persone che non possono permettersi di assentarsi neanche se si scoprono malate.
Rimane il fatto che è stato lo stesso primo ministro Löfven a dover ammettere l’incapacità del welfare svedese nel proteggere i più deboli, gli anziani. Ma cos’è andato storto? Ad oggi si levano molte voci critiche da parte degli stessi operatori sui protocolli sanitari nazionali. Le misure previste dal sistema sanitario, infatti, non prevedono il trasporto del malato dalla struttura all’ospedale. Vietano inoltre al personale delle case di cura la somministrazione dell’ossigeno, senza l’assistenza da parte di un medico autorizzato. E questo neanche nel caso del ricorso alle cure palliative.
Mikael Fjällid, anestesista di primo soccorso, ritiene che avrebbero salvato molte più vite, disattendendo i protocolli. Dal canto loro, le autorità sanitarie si difendono sostenendo la pericolosità del trasporto di persone malate e anziane. Inoltre, sottolineano la difficoltà della somministrazione della terapia dell’ossigeno da parte di personale non qualificato. Oltre a ciò, ritengano vada valutato lo spaesamento dell’anziano, trasferito improvvisamente da una struttura ad un’altra. In ultimo ammettono che non si possa negare l’eventualità di contrarre il virus proprio nell’ospedale stesso.
Rimane il fatto che in aprile, secondo i dati dell’istituto di statistica svedese, sono decedute 10.458 persone, la lista più lunga dopo l’esplosione influenzale del 1993.
Un dibattito nella società civile, destinato a non sparire subito
In Svezia le decisioni riguardanti il personale delle residenze sono prese a livello regionale. Ma sono le linee guida nazionali a stabilire che un anziano, ricoverato in una struttura pubblica o privata, non debba necessariamente essere portato in ospedale.
Il dottor Thomas Linden, funzionario del Consiglio Nazionale per la Salute e il Benessere, ha sottolineato che sta all’operatore valutare ogni singola circostanza. E ha ribadito allo stesso tempo che in nessun caso si debba discriminare il paziente in base al solo principio dell’età.
Ad oggi le Autorità assicurano che ci sono sufficienti risorse per tutti e che sono proprio le strutture per anziani ad essere tenute sotto stretta sorveglianza. Rimane il fatto però che la tragedia delle case di cura – che ha colpito tutti i Paesi del mondo – lascia in chi l’ha vissuto il timore che forse si poteva fare di più.
E apre un lungo dibattito nella società civile, destinato a non sparire nel tempo.
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