Il languishing è un termine coniato nel 2002 dal sociologo Corey Keynes per indicare l’apatia e la rassegnazione di fronte alla realtà. Una sensazione che porta a un’inattività devitalizzante senza benessere, né scopo, né gioia. E oggi più che mai sembrerebbe un’emozione predominante come afferma lo psicologo Adam Grant della University of Pennsylvania in un articolo sul New York Times. Eppure sembra che ne siano più colpite le giovani generazioni. Come aiutarle allora? Ne abbiamo parlato con Marco Trabucchi nell’ultimo webinar del ciclo “Anni Possibili”.
Avevamo sperato la fine della paura… ora è tornata più forte che mai. Due storie tragiche si susseguono: il virus e la guerra. Da due anni abbiamo perso la serenità: ne abbiamo un desiderio spasmodico. Adesso è il tempo di riprendere con logica i percorsi delle nostre vite, il tentativo di ricostruire un nuovo equilibrio. Ma come aiutare noi stessi e come aiutare i giovani, la parte delle nostre comunità più colpita dagli eventi?
Superare le fatiche: difficili previsioni
La domanda che numerosi si sono posti – “ne usciremo migliori?” – è banale, anche perché la complessità delle risposte è elevata. Sia per la diversità tra gli individui sia per la diversità delle reazioni di ogni individuo in circostanze diverse. E poi la crisi (le crisi) ha avuto effetti così devastanti che è poco onesto qualsiasi tentativo di minimizzare, di costruire ipotesi senza un realistico fondamento.
Riconoscere le difficoltà per superare le fatiche
Schematicamente dobbiamo tenere presenti alcune caratteristiche del tempo recente, perché hanno segnato nel profondo le nostre vite:
– Il limite alla nostra fisicità – che abbiamo sperimentato a livelli diversi durante il lockdown – caratterizzato dalla “violenta” separazione tra gli individui;
– La perdita dell’innocenza causata dalla morte, dalle molte morti, come mai era capitato in passato di sperimentare;
– Il dolore fisico e mentale provocato dalle difficoltà oggettive di trovare rimedi ai mali del corpo e della mente;
– La decrescita delle nascite come segnale di una profonda perdita della speranza;
– La disillusione verso la scienza, in particolare per la sua incapacità di prevedere il futuro;
– La disillusione per la perdita degli ideali di pace e la paura concreta che alla loro fine ci dovremo scontrare con la realtà cruda e durissima della guerra;
– La disillusione per un io creduto libero e in grado di autogovernarsi, che al momento della prova si è dimostrato incapace di affrontare la vita e le sue esigenze.
Superare le fatiche della pandemia: i consigli
Di fronte a questi scenari dobbiamo dare risposte vitali e concrete: riprendiamo seriamente e con determinazione la cura del mondo, dei nostri simili, della natura. Non siamo eroi, ma nemmeno illusi: siamo esseri pensanti che cercano di impegnarsi per riempire di cura la nostra vita e quella degli altri. In questa prospettiva la cura diventa il massimo di un possibile percorso terapeutico, irrinunciabile per il bene del singolo e quello dei componenti di una comunità ai vari livelli (famiglia, amicizie, vicinato, gruppi di interesse, ecc.).
La cura sarà dolce, gentile, rispettosa, mai prevaricatrice. Non mira a guarire l’altro, ma a garantirgli l’equilibrio della mente e del corpo. Non mira a controllare tutto e a promettere ciò che non è possibile raggiungere, ma ad accompagnare ogni giorno. Un realismo che non fa sognare, ma è garanzia per il domani assieme.
Noi, l’ancora dei giovani
Secondo alcune stime credibili, riportate dalla letteratura scientifica, la pandemia ha provocato 5.2 milioni di orfani, che hanno perso i genitori o il loro caregiver. Il dato indica senza mediazioni il dolore del nostro tempo e le rotture che si sono create, rotture che hanno bisogno urgentemente di cure, perché solo così la vita può riprendere. Sono, oltre a questi, centinaia di milioni i giovani ai quali dovremo offrire esempio, tempo, accompagnamento. Prima, però, dovremo chiederci se siamo davvero in grado di rappresentare un punto di appoggio, se le fatiche e la paura della pandemia e della guerra non ci hanno sopraffatto.
I dolori nascosti, i legami da stringere
Oltre a questi, vi sono anche molti altri dolori nascosti (“hidden pain”) che non riusciamo a conoscere e che solo attraverso un continuo lavoro di cura è possibile trovare negli angoli nascosti delle comunità, per impostare possibili risposte. In questo modo si sconfigge anche la pandemia silenziosa della solitudine, che non colpisce solo i singoli, ma ha riflessi drammatici sull’intera comunità. La vera libertà della persona del nostro tempo, alla ricerca di altri modi di vivere dopo le crisi, non potrà essere fatua e incerta, ma dovrà (potrà) derivare solo dalla cura reciproca.
A tal proposito Borges ha scritto:
“Non sai bene se la vita è viaggio,
se è sogno, se è attesa, se è un piano
che si svolge giorno
dopo giorno e non te ne accorgi
se non guardando all’indietro.
Non sai se ha senso.
In certi momenti il senso non conta.
Contano i legami.”
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