Certo che vuoi bene a tuo marito, cara lettrice, siete sposati da 37 anni! E lui è un uomo gentile, il tipo che se tu sei stanca, sparecchia senza farselo chiedere, che non fa il cretino con qualsiasi venticinquenne entri nel suo campo visivo, che ti conosce bene e vi capite con uno sguardo. Siete stati appassionati quando era tempo, e adesso state godendo di quella tenerezza sazia che è molto meno faticosa della solitudine delle vostre amiche (le separate, le divorziate, le vedove), e molto meno impegnativa degli amori in fase iniziale. O centrale. O terminale.
La vostra è una routine collaudata. Sveglia alle sette, un grugnito affettuoso, un bacio sui capelli spettinati, «Te la sei cambiata la camicia?», un altro grugnito (da interpretare: non è ancora sporca; sì che l’ho cambiata; fatti i fatti tuoi).
Alle 7 e 45 caffè, biscotti e via. Lui va a lavorare e tu pure. Variazione: lui va a lavorare, come ha fatto per tutta la vita, e tu resti in casa. Porti fuori il cane, carichi la lavatrice, rifai il letto. In casa c’è silenzio. Quel silenzio pulito del mattino. Avere una giornata davanti ti provoca una piccola vertigine di allegria. Farai quello che devi fare e ti premierai, fra un dovere e l’altro, con piccoli adorabili momenti di quiete. Leggere un romanzo, guardare un po’ di televisione (poca, che fa male), curare i fiori sul balcone, vagare un po’ per la città, passeggiando invece di correre, perché adesso il tempo è tuo.
Fino a sei mesi fa lavoravi. Sei scivolata nel ruolo di pensionata con un senso di liberazione. Tutte le incombenze che prima sbrigavi con ansia, in fretta e male, adesso le distendi nell’arco di 24 ore. Pesano meno, sono perfino divertenti.
Il crollo avviene quando alla pensione ci arriva lui. All’improvviso, c’è un uomo in casa. Non il sabato e la domenica, non dalle sette di sera in avanti. Sempre. Resta in pigiama fino a mezzogiorno, si aggira per l’appartamento come un naufrago, senza l’identità figlia del lavoro non sa che farsene di se stesso, legge il giornale brontolando, carica ogni frase di commento delle cose del mondo di un malumore che non aveva mai dimostrato. È diventato stranamente ipercritico nei confronti dei lavori domestici. Cerca di insegnarti come si lavano i piatti, soltanto lui conosce la quantità esatta di acqua che necessita il geranio rosa sul balcone, prepara un laborioso spezzatino coi funghi chiazzando di soffritto un’intera parete. Cucina bene, per carità, ma tocca ridare il bianco tutte le sere, dopo cena. Se continua così dovrai chiamare La Fulgida (impresa di pulizie), ma quel che è peggio, quel che è proprio insopportabile, è che è depresso. Parla troppo o tace per giorni. Ha scatti d’ira. Critica i vostri figli che sono, peraltro, bravissimi ragazzi. E quando vengono a pranzo, la domenica, beve troppo e si commuove su se stesso, poi crolla sul divano russando. Se organizzi una serata con gli amici di sempre, beve troppo e diventa aggressivo, soprattutto se gli amici stanno ancora ben ancorati nel mondo del lavoro. Loro dicono: beato te che sei in pensione. Come è normale. E devi fermarlo perché sta per aggredirli fisicamente. La sera, quando andate a letto, ti volta la schiena. E a te non dispiace. Perché non provi più nessuna attrazione, per quest’uomo triste che ti sta fra i piedi tutto il giorno.
Che fare? Trovagli un lavoro. Anche non retribuito. Non un hobby, che fa vecchio. Proprio un lavoro. Fosse anche pettinare le piume ai passerotti. Trascinalo alle mostre, alle presentazioni di libri, alle corse dei cavalli, alle esposizioni di cani, ai concerti, in palestra. Stancalo, fallo uscire. E alla sera, quando ti volta la schiena, prova a dirgli qualcosa di carino. Non lo pensi? Pazienza. Per medicare il trauma da pensionamento, qualche bugia è consentita.
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