Un Dc9 della compagnia Itavia con 81 persone a bordo – in volo da Bologna a Palermo – scompare senza lasciare traccia. Era il 27 giugno del 1980. Dopo anni di depistaggi la Cassazione accerta: ad abbattere l’aereo fu un missile. La vicenda non è chiusa
Quella sera d’estate di 43 anni fa tutto appare tranquillo. Il volo Itavia procede con andatura regolare, seguito, oltre che dal radar dell’aeroporto di Ciampino, anche dal raggio d’azione di due radar della difesa aerea di Licola e Marsala. Alle 21.21 il centro di Marsala avverte la Difesa aerea di Martina Franca del mancato arrivo a Palermo dell’aereo. Immediatamente si avviano le operazioni di soccorso, allertando i vari centri dell’aeronautica, della marina militare e delle forze Usa in stanza in quel tratto di mare. Alle 21,55 partono le ricerche condotte da elicotteri, navi e pescherecci. All’indomani vengono avvistati i primi resti delle vittime, dei bagagli e del relitto. Per le famiglie è l’inizio di un incubo, mentre il Paese sprofonda in una tragedia civile che, nonostante una condanna in giudicato, ha ancora zone d’ombra.
La traccia della scatola nera
«Guarda, cos’è?», sono le ultime parole pronunciate alle 20,59 del 27 giugno da uno dei due piloti di quella compagnia aerea che ormai non esiste più. Il testo della registrazione contenuta nella scatola nera del Dc9, recuperato e diffuso a 40 anni dalla strage, si interrompe improvvisamente, pochi istanti prima del black out con i radar, suggerendo un improvviso e fatale impatto con un oggetto nei cieli. Muoiono 81 persone (64 adulti e 11 bambini) mentre i rottami del velivolo, individuati a 3.500 metri di profondità, vengono recuperati solo a 8 anni di distanza. Tre settimane dopo l’incidente sui monti della Sila, in Calabria, si scoprono i resti di un aereo libico da guerra, un MiG 23, e del suo pilota. Uno scontro tra periti lega la morte dell’uomo al momento della tragedia.
I parenti delle vittime cercano la verità
Nel frattempo si contano le vittime. Accanto al personale di volo, nella lista passeggeri compaiono due carabinieri, un giudice con moglie e figli, una ragazza undicenne. E poi una laureanda, un contadino, la moglie di un minatore con tre bambini e la sorella; qualcuno rientrava da un ospedale del Nord, qualcun altro andava in vacanza. Immagini di una normalità fatta a pezzi, scomparsa all’improvviso, come la traccia di quell’aereo dai radar. Otto anni più tardi, i parenti – sconvolti – si costituiscono in un’associazione con lo scopo di “accertare la verità e quindi la responsabilità civile e penale della tragedia di Ustica”, e custodire la memoria dei fatti, promuovendo iniziative volte a fare giustizia. Anche per accertare l’effettivo ruolo svolto nella vicenda dai militari francesi e statunitensi di stanza in quel tratto di mare.
Il colpo di scena dopo i primi depistaggi
Intanto arrivano le prime rivendicazioni che si sono dimostrate poi false. Tra queste, quella dei Nar. I Nuclei Armati Rivoluzionari dichiarano la presenza a bordo di un loro camerata in possesso di una bomba esplosa per errore. Si punta il dito, inoltre, contro la compagnia aerea – che poi fallirà – ipotizzando un cedimento strutturale del velivolo: sarà una commissione di inchiesta del Ministero dei Trasporti nel 1982 a escluderlo. Poi il primo di una lunga serie di misteri: nelle registrazioni di tutte le basi italiane posizionate lungo la traiettoria del volo appare un “buco” proprio nello spazio temporale che anticipa e segue la tragedia.
Il colpo di scena arriva nel 1988, durante la messa in onda del programma Telefono Giallo condotto da Corrado Augias. Un telespettatore anonimo, che si definisce un aviere in servizio a Marsala la notte dell’incidente, chiama in trasmissione e dichiara di aver visto “perfettamente” – insieme ai suoi colleghi – i tracciati radar scomparsi e che dagli ‘alti’ comandi fu intimato a tutti il massimo silenzio. È la svolta all’inchiesta. Se di fatto, nonostante le indagini della Procura di Marsala, fu impossibile identificare il sedicente aviere, la telefonata scosse milioni di italiani, contribuendo ad avvalorare l’ipotesi di indagine su un abbattimento causato da un missile lanciato da un aereo militare. Uno scoop della trasmissione Samarcanda svela poi i tracciati del centro di Poggio Ballone (Grosseto): si vedono due aerei provenienti da Nord, altri due in arrivo da Sud. In mezzo il Dc9.
Le vicende giudiziarie
Numerose testimonianze emerse solo nel 2013 portano alla conclusione che in quel tratto di mare vi fosse un’intensa attività militare internazionale, con aerei da guerra e portaerei francesi e americani in esercitazione. Intanto, l’inchiesta del giudice Rosario Priore aveva già accertato nel 1997 la presenza di aerei militari in volo su Ustica quella sera, e quattro generali dell’Aeronautica (tutti peraltro in seguito assolti per insufficienza di prove) furono accusati di “concorso in alto tradimento mediante attentato continuato contro gli organi costituzionali”, in riferimento ai depistaggi delle indagini. Nel 2008 i parenti delle vittime citano in giudizio i Ministeri della Difesa e dei Trasporti per le “omissioni e negligenze” che avrebbero ostacolato la ricostruzione giudiziaria dei fatti. E, nuovo colpo di scena, l’ex capo dello Stato Francesco Cossiga, all’epoca degli eventi presidente del Consiglio dei Ministri, accusa un aereo francese che, nel tentativo di colpire un MiG libico nascosto sotto la pancia del DC-9 con a bordo Gheddafi, lancia un missile fallendo il bersaglio.
Nel posto sbagliato al momento sbagliato
La battaglia per la verità porta ad una prima condanna civile dei Ministeri della Difesa e dei Trasporti, confermata poi nel 2013 in Cassazione, che stabilisce il risarcimento ai familiari delle vittime. «È abbondantemente e congruamente motivata la tesi del missile […] non è neanche in dubbio che le Amministrazioni avessero l’obbligo di garantire la sicurezza dei voli», dicono i giudici. Stando alla sentenza, lo Stato non avrebbe assicurato con sufficienti controlli dei radar civili e militari la sicurezza dei cieli. L’aereo, dunque, era lì dove non avrebbe dovuto essere e non è difficile configurare che sia stato vittima di un’azione di guerra in quel tratto di mare. Del resto in quegli anni il Mediterraneo era scosso da tensioni politiche internazionali. La Francia di Valéry Giscard d’Estaing e gli Stati Uniti di Jimmy Carter – poi rimpiazzato dal più aggressivo Reagan – da un lato e la Libia di Gheddafi – fornitrice di petrolio e commesse – dall’altro, in mezzo il governo italiano a far da mediatore.
Ma basta questo per mettere la parola fine ad una strage che, nelle parole del presidente Mattarella, impresse una ferita profonda nella coscienza del Paese?
Un mistero ancora irrisolto
Il reato di strage non va in prescrizione e le indagini aperte nel 2008 non sono mai state chiuse, in attesa di poter procedere per una condanna anche penale che ancora manca. Il muro di gomma che per anni si è alzato sull’intera vicenda sembra non sfaldarsi ancora del tutto. Come recentemente denunciato da Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica, negli archivi di Stato “mancherebbe l’intero archivio del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per gli anni delle stragi avvenute tra il 1969 e il 1984, nonché tutta la documentazione del Ministro e del suo Gabinetto”. Nessun documento riguardante – non solo Ustica -, ma neanche ponti, aeroporti o ferrovie oggetti di attentati in alcuni degli anni più bui della Repubblica. Una lunga scia di sangue passa attraverso Piazza Fontana, Gioia Tauro, Peteano, la Questura di Milano, Piazza della Loggia, l’Italicus, la Stazione di Bologna e il volo Itavia – nominativo radio IH870 – che in una quieta sera d’estate si inabissa trascinando con sé le vite e i sogni del suo equipaggio e dei passeggeri.
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