Studiosi italiani e francesi, in collaborazione con colleghi internazionali, hanno studiato gli effetti della stimolazione cerebrale profonda contro il Parkinson. Secondo Alessandro Zampogna, primo autore dello studio “personalizzare il trattamento può migliorare la qualità della vita”
La stimolazione cerebrale profonda è uno dei trattamenti utilizzati per ridurre i sintomi e i disturbi tipici della malattia di Parkinson. Primi fra tutti, la lentezza dei movimenti (bradicinesia) e la rigidità muscolare. Ora, un recente studio internazionale ha scoperto differenze fondamentali nei meccanismi di questi sintomi e quindi nelle risposte al trattamento nel corso del tempo. Prima dei risultati di questa ricerca, si pensava invece che, contrariamente al tremore, bradicinesia e rigidità fossero strettamente correlati tra loro nella progressione della patologia.
La ricerca
L’indagine, svolta dai ricercatori dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli (Isernia), dell’Università Sapienza di Roma e dell’Università di Grenoble, in collaborazione con colleghi di istituzioni scientifiche italiane ed internazionali, è pubblicata sulla rivista scientifica Annals of Neurology. Sono stati esaminati i dati clinici di 301 pazienti con malattia di Parkinson, trattati con stimolazione cerebrale profonda e seguiti per quindici anni. Questa terapia prevede l’inserimento all’interno del cervello di elettrodi in grado di regolare il funzionamento di alcuni circuiti nervosi. Gli impulsi elettrici hanno l’effetto di migliorare i disturbi tipici della malattia di Parkinson. Si tratta di sorta di “pacemaker” per il sistema nervoso: un intervento noto per l’impatto positivo sui sintomi motori della malattia di Parkinson. Finora, però, non era stato approfondito il modo in cui i diversi sintomi rispondano al trattamento nel lungo termine.
La parola ai ricercatori
Spiega Antonio Suppa, coordinatore della ricerca: “Con il nostro studio, abbiamo scoperto che la bradicinesia e la rigidità, pur essendo entrambi sintomi motori, mostrano evoluzioni cliniche differenti dopo l’intervento di stimolazione cerebrale profonda. Questo ci fa pensare che i meccanismi alla base della bradicinesia e della rigidità possano essere diversi tra loro, un dato che apre la strada ad una nuova interpretazione dei meccanismi neuronali implicati nella malattia di Parkinson”.
Aggiunge Alessandro Zampogna, primo autore dello studio: “La ricerca indica che personalizzare il trattamento, adattandolo alle caratteristiche del singolo paziente, potrebbe migliorare significativamente la qualità della vita dei malati. Per questo motivo le prossime ricerche punteranno proprio ad approfondire le modalità di stimolazione cerebrale profonda e, soprattutto, ad esplorare come le variazioni nei parametri di stimolazione possano influenzare diversamente i sintomi cardine della malattia”.
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