Vivere in una società in cui i canoni di bellezza e prestanza fisica sono tenuti in estrema considerazione induce spesso a “rinnegare” la propria anzianità per paura di essere giudicati inadeguati
Con l’aumento dell’aspettativa di vita, il processo di invecchiamento è diventato un fenomeno di massa; eppure, nonostante gli studi e l’interesse sul tema, la vecchiaia è ancora oggetto di pregiudizi, stereotipi e paure.
Uno dei paradossi della società contemporanea è che nonostante – o forse proprio per questo – una crescente fetta di popolazione sia composta di anziani, i canoni di bellezza, giovinezza, prestanza fisica ed efficienza siano dominanti e sovrarappresentati, e tutto ciò che non rientri in uno schema “socialmente rassicurante” sia spesso rinnegato, o relegato a uno spazio intimo. Non a caso uno dei fenomeni in crescita in questi ultimi anni è la cosiddetta gerascofobia, ossia la persistente paura di invecchiare, associata a una fase naturale della vita che spaventa per i cambiamenti fisici, psichici e sociali che può comportare.
Spesso ci si riferisce al celebre personaggio del romanzo di Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, per introdurre il tema del rapporto con la propria immagine e i cambiamenti che in modo naturale la vita ci mette di fronte. Il Dorian Gray contemporaneo rappresenta l’emblema di una società nella quale la necessità di apparire porta all’ostentazione di un’immagine pubblica di sé che quasi mai coincide con quella reale.
Nel libro In pensione con il dottor Faust, la ricercatrice Rita Cavallaro parla di un patto faustiano tra anziani e società: «L’uno si impegna a disconoscere la sua condizione, a vivere attivamente come se nulla dovesse succedere, l’altra si impegna a non riconoscerlo per quello che è. La vecchiaia non è tanto emarginata, non esiste. Si parla di anziani, terza, quarta età, ma si usa raramente la parola vecchio».
Come testimonia anche l’antropologo Marc Augé nel suo Il tempo senza età, l’esperienza comune a tante persone in età avanzata è quella di ritrovarsi giudicati secondo luoghi comuni scontati e superficiali, dove il termine “vecchio” assume solo connotazioni negative, come se gli anziani dovessero solo subire un’età carica di difficoltà e decadimento, quando invece non è affatto così. Eppure, in un contesto sociale dove la morte e di conseguenza la vecchiaia restano un tabù, non meraviglia il tentativo di rimuoverne i segni, quanto e più a lungo possibile.
La paura di invecchiare negli ultimi decenni è decisamente aumentata – spiega a 50&Più il sociologo Antonio Censi, a lungo dirigente di una Rsa e autore del libro Vita da vecchi. L’umanità negata delle persone non autosufficienti -, la nostra società si rifiuta di prendere in considerazione l’idea stessa del decadimento fisico. Tutto quello che si sta facendo sul piano “educativo” è finalizzato alla negazione, all’allontanamento dalla condizione di decadimento fisico e dipendenza dagli altri. Di conseguenza questi problemi tendono a essere esclusivamente assegnati ai servizi, e la società fatica a riconoscersi nelle persone che stanno attraversando questa fase della loro esistenza. La conseguenza è una grande incomprensione, perché anche gli anziani si aspettano di essere riconosciuti come persone.
Cosa significa per un anziano essere riconosciuto in quanto persona?
Ricevere quegli aiuti che gli consentano di condurre la vita che ha sempre fatto, che è cosa ben diversa dall’offerta di una serie di prestazioni d’assistenza erogate in modo standardizzato e possibilmente a costi contenuti. Io ho lavorato a lungo nell’ambito delle Rsa e ho potuto verificare da vicino i limiti di un approccio esclusivamente medicalizzante, incentrato sulla gestione dei costi dell’assistenza, secondo un modello aziendalistico che considera le persone solo dal punto di vista dei bisogni assistenziali. Dovremmo ribaltare questo paradigma e preoccuparci di riconoscere la persona nella sua complessità, cercando di stabilire una continuità con la vita che conduceva. Ad esempio, se si andassero a visitare le case delle persone che vivono nelle residenze sanitarie, si scattassero delle foto degli ambienti, si facessero delle riprese, si capirebbe molto della loro storia e sarebbe più facile riconoscere l’identità di quel singolo individuo. A volte i ricoveri avvengono in maniera sbrigativa, o arrivano troppo tardi, quando la situazione si è deteriorata, i problemi si sono acuiti e la persona fatica ancora di più ad adattarsi.
Si contrasta la paura con la conoscenza? Anche di ambienti come le Rsa, apparentemente chiusi e “altro” rispetto al resto della società?
Pensiamo alla pandemia, che ha avuto l’effetto di richiamare l’attenzione pubblica sui servizi di queste realtà e sulle fragilità che esistevano già prima del Covid; ma anche sull’impegno e la dedizione di tanti singoli operatori che hanno dato prova di resistenza, anche davanti ai fallimenti organizzativi. Sul fronte umano abbiamo avuto numerosi segnali di attenzione, ascolto e dedizione, ed è da questo che si deve ripartire per un rilancio dei servizi che mettano al centro le persone. Il problema non è rendere più efficiente l’assistenza, ma restituire umanità a questi luoghi. Con le nostre paure, noi cerchiamo di difenderci, di tenere lontane queste realtà, ma bisognerebbe invece avere il coraggio di far emergere i problemi, discuterne, piuttosto che coltivare l’idea che esista una formula calata dall’alto che elimini ogni forma di sofferenza e di disagio associate a questa fase della vita. Siamo di fronte a realtà difficilmente programmabili, perché ogni giorno comportano degli imprevisti, e dunque la scelta deve essere fra il rilancio di un modello organizzativo che ha mostrato dei limiti nell’approccio alla vecchiaia, oppure cercare di fare tesoro delle testimonianze umane. Ma per questo ci deve essere una mobilitazione morale della società, che parta da tutti, perché gli anziani di domani siamo noi.
Come si contrasta lo stereotipo dell’anzianità come età fragile e decadente?
Innanzitutto dobbiamo pensare che tante delle forme di disagio legate all’età anziana non nascono dalla pur naturale e presente decadenza fisica, ma dalle relazioni con gli altri e dai cambiamenti che intercorrono ad alimentare una sensazione di allontanamento dal mondo e di riduzione dello spazio fisico e sociale. In fondo la fragilità dell’età anziana e la sua rappresentazione ci servono a mascherare altre fragilità, presenti in ogni fase della vita, fra i giovani e fra gli adulti, e che dovrebbero al contrario creare una comunanza umana, farci fare un passo in avanti sul piano della comprensione e dell’arricchimento.
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