Da questo numero questo spazio viene dedicato a idee, considerazioni, approfondimenti della redazione di 50&Più. Un luogo aperto, dove confrontarsi con opinioni che traggono ispirazione dall’attualità
Il 13 settembre una giovane di 22 anni stava visitando Teheran, la capitale dell’Iran, con la famiglia. Erano davanti alla fermata della metro quando la polizia si è avvicinata e l’ha accusata di non indossare correttamente l’hijab – il velo – come prescritto dalle leggi dello Stato. Mahasa Amini, originaria del Kurdistan iraniano, è stata quindi arrestata e condotta al centro di detenzione di Vozara. Da qui il trasferimento in ospedale: la ragazza è morta dopo tre giorni di coma. Immediatamente, si sono innescate decine di proteste, anche online, che hanno portato il governo iraniano a limitare l’accesso a internet in varie zone del Paese, per rendere più difficile la diffusione delle immagini di rivolta. Al funerale di Mahasa Amini, infatti, tante donne hanno manifestato contro le autorità iraniane togliendosi il velo e sventolandolo o bruciandolo in segno di protesta. Sui social mondiali molte altre si sono tagliate i capelli (un segno di lutto nella cultura islamica) per manifestare solidarietà. Un movimento che, nelle strade iraniane, è stato represso dalle forze dell’ordine che non hanno mancato di fare ricorso alle armi per bloccare la folla.
Questo tipo di proteste si verificano da oltre quarant’anni, quando nel 1981 in Iran è entrata in vigore una legge approvata dal regime islamista che impone alle donne di mostrarsi in pubblico indossando un chador, un mantello generalmente nero che le copra dalla testa ai piedi, oppure un hijab, che avvolga la testa, il collo e i capelli e al quale vanno abbinate maglie a maniche lunghe che coprano le braccia. Da quel momento, le strade delle città sono pattugliate dalla polizia religiosa, che vigila sul rispetto delle norme islamiche e conservatrici, fra cui quelle sull’abbigliamento femminile. Dall’insediamento del governo ultraconservatore del presidente Ebrahim Raisi, in carica dal 2021, però, le proteste contro le norme sul vestiario femminile vengono trattate con maggiore severità. Proprio a metà agosto, infatti, il Presidente aveva firmato un decreto che stabilisce pene più dure per chi viola le leggi sull’abbigliamento da tenere in pubblico.
C’è uno slogan che risuona per le strade della città: “Donne, vita, libertà”. O in molti casi solo “libertà”. Perché è questo che si chiede: libertà di scegliere, di decidere se portare il velo o no, di rispettarsi reciprocamente nella decisione di adottare o abbandonare le tradizioni del Paese. Nel mese in cui ricorre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – il 25 novembre – è importante diffondere questo appello per dare voce alle libertà ancora da raggiungere. Purtroppo, ancora oggi in tanti Paesi del mondo, si assumono scelte sul corpo e sulla vita delle donne che loro stesse non possono arginare.
Basta analizzare i dati a livello globale relativi ai femminicidi o omicidi di genere pubblicati nel 2019 dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODOC). Sulla base delle statistiche fornite dalle nazioni, ogni giorno sono morte nel mondo 137 donne per mano del partner o di un familiare: il 58% delle 87.000 sono state uccise intenzionalmente. Oppure pensiamo ai disagi delle donne che intendono interrompere una gravidanza, ma che sono obbligate a spostarsi in un altro comune, se non in un’altra regione, e che spesso intraprendono questa scelta in seguito a problematiche legate all’ambito lavorativo, familiare, psicologico ed economico. Anche per questo dobbiamo inneggiare alla libertà: al raggiungimento di quell’equilibrio che permetta il diritto di scegliere senza sentirsi proprietà di nessuno.
di Anna Grazia Concilio e Linda Russo
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