Ho ricevuto molte lettere, e questa è una cosa molto bella. Mi piace che la nostra sia una conversazione a distanza, mi piace sentire che intorno a questa pagina, a questo mensile, si stia formando una piccola comunità di amici. Fra le lettere che ho ricevuto, e letto con gioia, ce n’è una che mi ha colpita particolarmente. È di Anna e incomincia così: «Sono una ragazza di 65 anni, ho solo la licenza di scuola media inferiore e, con umiltà e ascolto, ho imparato la contabilità. Ho incominciato a lavorare a 15 anni e lavoro ancora come contabile e amministratrice di una piccola azienda».
Mi ha colpito la qualità della scrittura, sorprendente per una persona che è andata poco a scuola. Sentite qui, sentite come racconta le varie fasi della pandemia: «All’inizio era come se vivessi in un mondo a parte. Lavoravo da casa, come faccio da cinque anni. Pulivo, cucinavo, mi prendevo cura dei nipotini. Appena potevo leggevo, ricamavo e non uscivo, quasi rintanata in un angolo come una bambina in castigo. Dalla televisione tuonavano parole che risuonavano nella mia mente come un’eco infinita: “State a casa, anziani! State a casa, nonni!”. Mi sentivo offesa… Stringevo i miei nipotini spesso e, nello stringerli, l’angoscia prendeva il sopravvento come se ogni abbraccio fosse l’ultimo. E gli amici? Niente incontri, nessuna gita, solo telefonate… Poi è arrivata l’estate e un po’ titubanti siamo andati in vacanza, mi è sembrato un sogno che tutto fosse finito e invece siamo ricaduti nel buio. Ora sono a casa, il virus è venuto a trovarmi. Io e mio marito, 48 anni di matrimonio, ironia della sorte, adesso siamo separati in casa, io positiva, lui negativo. Anche nella vita siamo sempre stati così: io ottimista, lui pessimista».
Mi riempie di ammirazione, Anna, per la sua scrittura (lo vedete che leggere molto serve più che andare a scuola?), innanzitutto, e poi per la sua capacità di sorridere. Nonostante il contagio, la malattia, la separazione coatta dal marito, l’ipotizzabile allontanamento dei nipotini, lei sorride. Non nega il dramma, ma sa volgerlo in commedia. E questa è una qualità che noi, ragazze del secolo scorso, abbiamo conquistato per tutte le altre, tutte quelle che sono diventate donne dopo. Una volta non era così. Si viveva, noi femmine, nella cultura del lamento e della recriminazione.
Mia madre non faceva che rinfacciarmi il suo sacrificio, cercando di buttare sulle mie spalle di bambina anche la sua rinuncia ad un lavoro che, in realtà, non aveva mai voluto né cercato. Era, come Anna, una donna intelligente che aveva studiato poco (non era arrivata neppure alla licenza magistrale) ma leggeva moltissimo. Leggendo si era molto affinata e anche lei scriveva bene, ma di Anna non ha mai acquisito, nel corso dei suoi ottant’anni di vita, la forza tranquilla del sorriso e la determinazione ad affrontare le difficoltà piuttosto che farsene travolgere.
«Quando potrò di nuovo uscire? – scrive più avanti Anna -. Ho deciso che mi prenderò ancora cura dei nipotini. È una gioia e una necessità… Probabilmente mi esporrò di nuovo al virus ma sia quel che sia: meglio morire sul campo di battaglia piuttosto che rintanati… Io continuerò a lavorare e a occuparmi della casa, parlerò al telefono con gli amici e rideremo. Continuerò a leggere e ricamare, a cucire pupazzi e bambole di stoffa, e canterò, sì canterò, per scacciare la paura. Grazie per aver letto quello che ho nel cuore».
Grazie a te, Anna, per avercelo raccontato. Forse, nel tempo che ha impiegato questa lettera a raggiungermi, e la rivista a pubblicarla, sia tu che io saremo state vaccinate. O forse soltanto io, perché tu ormai dovresti essere immune. Resta la potenza delle tue parole: spero che saremo in molte ad esserne contagiate.
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