Sonia Bernardetta Sella.
Ex impiegata commerciale, vive a Vicenza dove partecipa ad associazionismo culturale e creativo, e svolge attività di volontariato. Ama fotografare, scrivere racconti brevi, poesie e fiabe dedicate all’amicizia, all’accoglienza, alla fratellanza e allo stupore per le bellezze della natura. Sue creazioni sono state pubblicate in diverse occasioni: in radio, in antologie e in un romanzo a più mani. “Tommaso trenino imprudente”, sua prima fiaba, è stata segnalata e utilizzata anche per un laboratorio sonoro-teatrale documentato in rete dal Politecnico di Milano. Nel 2019 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa, al concorso 50&Più.
L’idea di partecipare ad una delle solite marce domenicali non aveva nemmeno sfiorato Regina, uscita di casa in tarda mattinata. Fin dal giorno precedente le era venuta un’ossessione: trovare un dipinto antico che anni prima aveva visto esposto nella principale pinacoteca della sua città: il volto di un uomo, con occhi verdi, ben spalancati e tristi. Voleva rivedere quello sguardo che tanto le ricordava suo padre.
Arrivata alla galleria d’arte aveva indagato con il personale per avere informazioni e sapere se fosse stato possibile visitare la stanza del dipinto, che ricordava essere a pianterreno, o almeno conoscere il nome e l’autore dell’opera per fare una ricerca.
Apprese che probabilmente era stato esposto dopo un restauro, prima della restituzione, e che l’ingresso alla sala a cui faceva riferimento non era più consentito al pubblico. Non demordendo, visitò tutte le stanze accessibili, con la speranza di trovarselo davanti. Ma degli occhi di suo padre nessuna traccia.
Finito il giro, camminò nel centro storico immersa nei suoi ricordi.
Dispiaciuta di non essere riuscita nella sua missione, non fece caso ai passanti e nemmeno alle gocce di pioggia che iniziavano a scendere e che le bagnavano i capelli. Stava pensando alle volte in cui suo padre l’aveva invitata a prendere la vita più dolcemente, a non affannarsi troppo! Ricordò poi quel giorno quando, arrivata in casa di riposo con sua figlia Alice, l’aveva trovato nell’anticamera seduto su una poltrona con la schiena ben ritta, ma lo sguardo fisso nel vuoto.
“Buongiorno, buongiorno! Eccoci qua!”, aveva detto. Lui aveva girato lentamente il capo, fissandola.
“Ciao nonno! Come va?”, aveva esclamato festosamente la nipote. Il suo sguardo si era spostato subito verso di lei, abbozzando un lieve sorriso.
“Allora, come ti trovi in questo nuovo edificio?”, aveva chiesto Alice, cingendogli le spalle.
“Troppo lusso!”, aveva frettolosamente risposto.
Regina era felice che la figlia gradisse accompagnarla sovente. Per suo padre quella ragazza era un toccasana.
Era ben vestito, ordinato, e i suoi capelli argentei sembravano tirati a festa.
“Stamattina sei andato dal barbiere?”.
“No, mi sono pettinato da solo”.
“E ti sei imbrillantinato?”, aveva aggiunto Regina. Lui aveva annuito compiaciuto.
“Ha appena iniziato a piovere. Non possiamo uscire”. Suo padre, indifferente, non aveva battuto ciglio. “Avrà una brutta giornata”, aveva pensato.
“Ti ho portato magliette intime, un pullover e pigiami invernali nuovi”. Allora lui aveva sollevato il viso con lo sguardo interrogativo, e lei aveva intuito il suo pensiero: “Ma perché, perché hai speso per me, che senso ha tutto questo vestiario? Per quanto tempo credi che io rimanga ancora in vita?”.
Dopo la morte improvvisa della moglie, alla fine di un intervento chirurgico, aveva spesso avuto sbalzi d’umore. Era già da qualche settimana che lo trovava particolarmente spento, come se non gli importasse più di niente.
Lo lasciò con Alice e andò a parlare con il personale per accertarsi sull’andamento degli ultimi giorni e ottenere chiarimenti sul vestiario.
Da circa due mesi, oltre all’etichetta con nome e cognome, gli indumenti dovevano essere corredati anche di un cip elettronico per velocizzare la tracciabilità. Si augurò che il sistema fosse efficace: spesso, nonostante i continui rifornimenti, aveva trovato l’armadio semivuoto. A suo padre non piacevano le tute continuamente imposte dalle operatrici socio sanitarie; amava vestire elegante, indossare camicia e cravatta, privilegiando il rosso mattone e il bianco con rifiniture azzurre.
La coordinatrice le consigliò di lasciare la borsa con i nuovi capi nell’armadio, con un biglietto di accompagnamento. Le guardarobiere avrebbero provveduto all’applicazione del cip.
“Ecco fatto, devo andare a riporre i vestiti nella tua stanza”. La guardò quasi assente, non accennando di volerla accompagnare come d’abitudine quando le portava indumenti nuovi o regali. “E’ stanco”, pensò. Ma era anche del parere che il trasferimento dal vecchio chiostro alla nuova ala fosse stato deleterio per il suo equilibrio psichico, pur essendo rimasto circondato dal solito personale.
Arrivata in camera aprì l’armadio, tolse tutti capi e li sistemò sopra il letto, vicino a quelli nuovi. Mancavano una quindicina di camicie. Si chiese se fossero state perdute. Erano già trascorsi due mesi da quando le aveva lasciate impacchettate con cura nella precedente stanza da letto, prima del trasloco. Mentre preparava il post-it con le indicazioni per il personale, giunse Alice annunciando: “Nonno in arrivo!”. Infatti si affacciò subito alla porta, per poi spostarsi nel bagno. Dopo, si avvicinò al letto dando una sbirciata e, sempre zitto, si allontanò verso l’uscio. Regina, mentre si muoveva verso di lui, con la coda dell’occhio vide che sopra alla scrivania c’era un diploma. Incuriosita lesse: Dottore in Fisica.
“Papà, sai che il tuo compagno di stanza è laureato in fisica?”.
“Certo”, rispose, e ben appoggiato al suo girello proseguì a piccoli passi per l’ampio corridoio. Dal tono della voce intuì che doveva essere a conoscenza anche di altri particolari, ma non era il momento opportuno per parlare e così proseguì con l’operazione armadio.
Nel frattempo fece capolino Sandro, uno degli ospiti della struttura, che le chiese: “Ma quanti anni ha suo papà?”.
“Perché, quanti anni le ha detto che ha?”.
“Ottantacinque, dieci più di me che ne ho settantacinque, ma stento a crederlo perché sembra più giovane”.
“Sì, le confermo che ha ottantacinque anni”.
Incredulo replicò: “Ha proprio ottantacinque anni”, e si ripeté dicendo che sembrava più giovane. “Ma quando era a casa viveva da solo?”. Lei tergiversò nel rispondere mentre usciva dalla stanza, anche perché sapeva che suo padre non gradiva l’argomento.
“Nonno ti va se andiamo al bar interno?”.
“Se non c’è da camminare molto”. Regina era perplessa: nonostante l’ausilio del girello, percepiva che era in difficoltà, proprio giù di tono. Si diressero quindi verso il bar, seguiti da Sandro, desideroso di stare in loro compagnia.
Mezz’ora dopo, al rientro nel piano, trovarono una sorpresa: la guardarobiera con il carrello della biancheria pulita, sopra il quale era ben visibile la sospirata pila di camicie stirate.
Col passare dei mesi, visitandolo assiduamente, coinvolgendolo in passeggiate seguite da aperitivi, attività ricreative, tenendolo al corrente delle vicende del mondo e della famiglia, il suo umore era migliorato. La sua capacità motoria, invece, era peggiorata e dopo qualche mese smise di camminare. Durante quegli incontri, sempre più lunghi, riuscivano a trascorrere anche momenti in allegria. Lei gli leggeva libri e lui raccontava vecchi episodi della sua vita, collegandosi a volte anche alle letture. Era stato partigiano, ma non amava parlarne molto. Le aveva però raccontato di tre polacchi con i quali aveva fatto amicizia, poi caduti in guerra. Finché era in forze, tutti gli anni nel giorno di Ognissanti si premurava di andare al cimitero per portare dei fiori sulla loro tomba.
Quando non uscivano in giardino, o a passeggio per la città con la sedia a rotelle, spesso giocavano a carte, e lui qualche volta barava ma lei fingeva di non accorgersene. Quando era costretto a letto o non ce la faceva ad alzarsi, se di buon umore, le canticchiava vecchie canzoni e cantilene. Lei che si dilettava a scrivere, un pomeriggio gli insegnò una sua nuova filastrocca. “Quante sane risate!”, ricordò Regina.
Un giorno lui esordì: “Perché non scrivi di noi?”. Lei rimase letteralmente sbigottita. La richiesta era decisamente inattesa, proprio come un fulmine a ciel sereno.
“E’ complicato, non so da dove iniziare”, rispose per renderlo più partecipe.
“Prendi appunti e quando ritorni a casa sistemali”, la incoraggiò con voce tranquilla, fissandola negli occhi.
Trascorsero così quasi sei anni. Quattro mesi prima del suo novantunesimo compleanno, indebolito dalla malattia, stanco, rassegnato, ma anche sereno, spirò mentre lei gli era accanto.
Regina, sempre assorta nei suoi ricordi, era ormai a un centinaio di metri dalla sua abitazione. Gocce sempre più incessanti cadevano ovunque, mentre folate di vento improvvise piegavano le chiome degli alberi. Le piaceva sentire l’odore della terra bagnata, l’aria sulla pelle e camminare sotto la pioggia. Pensò nuovamente a suo padre, quando seduto sotto il portico, silenzioso osservava il cielo in burrasca.
Rientrata a casa si tolse i vestiti, indossò una calda tuta, si asciugò i capelli e, presa carta e penna, scrisse una poesia a lui dedicata.