Quando ho contratto il Covid, in data 13 novembre 2020, ho subito pensato di essere davanti ad uno spartiacque. Niente sarebbe stato più come prima. C’era un prima, la Romina libera, priva di vincoli e bramosa di continuare a scoprire il mondo. E c’era un dopo, la Romina untrice, quella che era improvvisamente diventata un pericolo per tutti.
Nel dopo ho immaginato scenari desolanti. Perché sì, è una malattia invisibile il Covid, e può essere anche impercettibile. Almeno per me lo è stato. Può anche non far male (nel mio caso non mi ha causato né febbre, né tosse, né perdita di gusto e olfatto). Arrancavo nel respirare, quello sì. Ma ho cercato di ridurre i movimenti, così da non badare a quel disagio.
É a livello psicologico che ti disarma, però. Perché ti fa sentire pericolosa ed inerme allo stesso tempo. Tu sei il veicolo con il quale questa malattia contagia e si propaga, e non puoi fare niente per impedirlo, se non usare tutte le misure di cautela.
Ci ho messo varie settimane, anche dopo la guarigione, a scrollarmi di dosso quel timore di esser un pericolo per tutti. E per settimane ho allontanato chiunque gravitasse intorno a me, confidando che solo l’isolamento poteva essere una soluzione.
Mai perdere di vista le fonti
Domenica 14 marzo, mentre cucinavo e pensavo che all’indomani, la Lombardia, la regione che mi ospita da un po’ di anni ormai, sarebbe diventata per l’ennesima volta rossa, mi sono ritrovata a sentire Mara Venier. Sono settimane che, in apertura di Domenica In, dedica una finestra all’argomento vaccini. Ascoltavo “esperti” che si contraddicevano gli uni con gli altri e lei, in grande sprint, incalzava con le domande. Li seguivo con interesse, perché parlavano anche di me: “Come deve comportarsi chi ha già contratto il Covid? Deve fare il vaccino oppure no?”. E vai con i pareri contrastanti, uno che diceva di sì, e l’altro che negava.
1500, il numero verde
Improvvisamente, è come se avessi aperto gli occhi, e mi è sembrato di guardarmi dall’esterno. Certo, va bene la simpatia della Venier, ma con che autorità io potevo basarmi sulle sue congetture? Così ho fatto l’unica cosa saggia a cui mi aggrappo, da ormai vari mesi: ho chiamato il 1500. É il numero verde che il Ministro della Salute Speranza ha attivato per la pandemia. É attivo 24 ore su 24, rispondono persone gentili e preparate che ascoltano con attenzione le tue richieste, e poi ti dirottano al servizio più opportuno.
Ero già ricorsa al loro intervento quando, al sopraggiungere delle vacanze natalizie, volevo tornare nel Lazio, a casa dei miei genitori, ma avevo paura di essere ancora un pericolo, una probabile untrice. E a nulla erano serviti i 4 tamponi che mi ero fatta, a nulla era servito il test sierologico che mi confermava una quantità di anticorpi molto elevata. Perché io non ero sicura di me. «Non è più contagiosa, può stare tranquilla», mi disse la voce femminile al telefono. Era un medico, si presentò con nome e cognome. E le sue parole furono per me un toccasana.
Così, quella domenica pomeriggio, decisi di rifugiarmi ancora in quel numero. Ho telefonato, l’attesa è durata un paio di minuti, prima di riuscire a parlare con l’operatore. Ho spiegato il mio problema e son stata dirottata su un altro interno dove, a rispondermi, è stata una dottoressa. Le ho rivelato i miei timori da 37enne che, avendo già avuto il Covid, non sa bene come comportarsi in merito alla questione vaccino. Lei mi ha detto di rimanere in attesa, e nel frattempo mi ha letto la circolare del 3 marzo 2021, nella quale si affermava che, in caso una persona abbia contratto il Covid nell’arco di 3 o 6 mesi, può fare solo una dose di vaccino. Le ho espresso i miei dubbi su Astrazeneca, dicendo che avevo sentito che, per chi era stato positivo, gli effetti collaterali potevano essere ancora più brutti. Non mi sono soffermata sulla fonte (del resto era Domenica In, non ci avrei fatto una bella figura…). La dottoressa al telefono mi ha rassicurato, dicendomi che non c’erano correlazioni con i casi di morte e le somministrazioni di vaccino, non c’erano evidenze scientifiche. All’indomani l’AIFA avrebbe poi bloccato Astrazeneca, facendomi ripiombare di nuovo in quel limbo dal quale pensavo di essere uscita. Ma ho deciso di aspettare lo svolgersi degli eventi, senza mettermi di nuovo in discussione. Ed infatti, dopo pochi giorni, è tornato il semaforo verde.
Il grande giorno
Sono andata all’ospedale di Lecco il 23 marzo, poco prima delle 16. Avevo letto che la mattina c’era stato un caos, e tanti docenti si erano ritrovati ad aspettare anche tre ore, intasando tutti gli spazi. Ma del resto quella del pasticciaccio lombardo sembra una storia destinata a non aver fine, una saga in grado di far concorrenza al Signore degli Anelli. Per fortuna invece, quando sono arrivata io, era tutto tranquillo. Da una parte c’era un tendone (dove mesi prima ero andata a fare il tampone di fine quarantena) che era stato adibito alle vaccinazioni degli Over 80. Poi, dall’altro lato, c’era un cartello che indicava gli Under 80. Fortuna ha voluto che abbia ritrovato lì due amiche, anche loro prenotate allo stesso orario, e quindi la gioia nel rivedersi ci ha fatto distrarre dal motivo per cui ci trovavamo in quel luogo.
Ho compilato il modulo, ho aspettato il mio turno e sono entrata. Ho consegnato il modulo, la tessera sanitaria e l’esito del tampone positivo in mio possesso, risalente al 13 novembre. Dall’altra parte del pc il medico ha riportato tutti i dati, confermandomi che avrei dovuto fare solo quella dose. «L’ho inserito nel sistema, è probabile che tra un paio di mesi riceverà lo stesso l’sms per fare il richiamo, in quel caso lo ignori», mi ha detto. La puntura è stata quasi impercettibile (fidatevi se lo dice la sottoscritta che ha la fobia degli aghi!). Dopo l’iniezioni, ho aspettato venti minuti nella sala d’attesa insieme alle due amiche che avevo incontrato e poi ho lasciato l’ospedale.
The day after
Il giorno dopo l’ho trascorso a letto, priva di forze. Ma era tutto previsto, tutto è andato come mi era stato annunciato: «dopo 12 ore inizierai ad avere brividi di freddo» – mi avevano detto – , «sentirai salire la febbre e dovrai prendere qualcosa per farla abbassare». Detto fatto. Mi avevano paventato anche dolori al braccio, ma io non ho accusato alcun fastidio.
Dopo ventiquattro ore era tutto finito. Mi sono svegliata, all’indomani, con quella brama e quella strana allegria di chi pensa che forse sta finalmente per vedere la “luce”. Ed allora eccomi che sogno, sogno quel passaporto vaccinale, sogno quella me, che con lo zaino colmo di attrezzatura fotografica, mi accingo a raggiungere la scaletta dell’aereo. Mi reggo al poggiamani con forza, perché il peso dello zaino mi sbilancia all’indietro, e non voglio di certo causare un incidente a catena balzando giù dai gradini.
É così che voglio tornare a vedere il mio futuro: riprendere a viaggiare, ad emozionarmi e a raccontare il mondo. Voglio smetterla di sentirmi un pericolo per gli altri. E forse, finalmente, tornerò a sentirmi libera.
Lo speciale di Spazio50
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