Nel 2020, il governo di Trump ha varato il Titolo 42, una misura che consentiva di bloccare ed espellere le persone in cerca di protezione al confine meridionale degli Stati Uniti. Una politica utilizzata per espellere oltre 2,8 milioni di persone verso le città lungo il confine con il Messico e che ha causato una catastrofe umanitaria per i migranti in cerca di sicurezza. A maggio l’amministrazione Biden ha messo fine al Titolo 42, ma la crisi migratoria al confine tra USA e Messico continua a essere drammatica. “Sognando l’America” è un servizio a puntate di Spazio50 che raccoglie le storie di chi è in cerca di una vita migliore.
Matamoros è la porta orientale di ingresso negli States. Qui, a separare il Messico dagli USA c’è un fiume, il Rio Grande, che attraversa tutto il confine meridionale del Texas. I migranti, provenienti soprattutto dal Centro America, fino a qualche mese fa cercavano di attraversare questo lembo d’acqua in vari modi: chi a nuoto, chi su materassini di fortuna, e con una corda che portava da una parte all’altra del Rio. Dal mese di maggio le leggi sulla migrazione negli USA sono cambiate, è tornato in vigore il Titolo 8 che prevede, in caso di ingresso irregolare negli States, la deportazione immediata e la proibizione di entrare nel territorio statunitense per almeno 5 anni. Adesso l’unico modo per richiedere asilo è attraverso CBP1, un’app per cellulare, che si può compilare solo in Messico.
Bisogna aspettare dunque che sul proprio smartphone arrivi la notifica di un appuntamento, per poter attraversare il confine in maniera regolare. Non ci sono tempi certi, non si sa quanto si debba aspettare: per alcuni sono settimane, per altri sono mesi, per altri ancora la compilazione non va a buon fine, spesso per motivi di natura tecnica. Quindi si attende, impotenti, al di qua del fiume, e vedendo il filo spinato che dall’altro lato ricorda che il sogno americano è lì, esiste, ma non è per tutti.
Sognando l’America, aspettando una notifica
E così la città di Matamoros, da luogo di passaggio, è diventata un collo di bottiglia, dove gli indocumentados si stipano, in attesa di poter attraversare. Persone di varie nazionalità si sono accampate sulla riva del fiume, in condizioni precarie, dando vita ad uno slum fatto da tende di fortuna e pezzi di lamiera. Arrivano dal Venezuela, dall’Honduras, da El Salvador, dal Nicaragua, da Haiti e da altri paesi del Centro America e anche più giù.
“Ci sono anche tanti migranti interni, che arrivano dalle zone meridionali del Messico come Guerrero e Michoacán”, spiega Cristina Romero, portavoce di Medici Senza Frontiere.
E poi ci sono le storie, come quella di Joanna, salvadoregna, che a 51 anni si trova qui, a duemila chilometri di distanza dai suoi affetti. Per lei il sogno americano consiste nella possibilità di trovare un lavoro che le permetta di comprare le medicine per curare sua figlia, affetta da una malattia al cervello. “Son due mesi che aspetto – racconta – è difficile la vita qui, ma ho fede in Dio e spero di arrivare dall’altro lato”.
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