«I social riempiono vuoti creano spazi di relazione e nuove opportunità. Essenziale è l’uso consapevole di cui deve farsi carico il sistema educativo», sostiene il professor Amendola dell’Università di Salerno.
C’è vita fuori dai social? È l’interrogativo, più o meno provocatorio, che molti osservatori si pongono a proposito dell’estensione e della pervasività delle comunità virtuali di Facebook, Instagram, TikTok, YouTube e affini. Un fenomeno ormai consolidato, sebbene in continua ridefinizione, che suscita le più disparate reazioni di entusiasmo e di apprensione, lodi da chi decanta straordinarie opportunità di connessione e condivisione e critiche da chi lamenta tribune offerte agli ignoranti e ai maliziosi.
Per il professor Alfonso Amendola, docente di Sociologia dei processi culturali e Internet Studies all’Università di Salerno, bisogna innanzitutto storicizzare la questione. «Con la fine del Novecento e della sua dimensione culturale – spiega – si è determinato l’avvento del cosiddetto web 2.0, basato sulla comunicazione da molti a molti. Si è aperta l’era dei media ‘partecipativi’, fondati cioè sull’interazione dei soggetti che ne usufruiscono. È quella che il sociologo spagnolo Manuel Castells ha definito ‘società digitale’, in cui si vive la ‘multi-life’ e le dimensioni online e offline, quella concreta e quella virtuale, si fondono in un’unica grande visione del mondo. Un altro sociologo, Giovanni Boccia Artieri, professore all’Università di Urbino, ha parlato di ‘stato permanente di connessione’, a indicare che la dimensione online è sempre presente nelle nostre vite, ci richiama e ci distrae anche quando non siamo di fatto online». Un processo pervasivo e per molti versi affascinante, inevitabilmente legato allo sviluppo tecnologico. “Il digitale e i social network sono ormai ubiqui. Hanno una presa intergenerazionale e intervengono in ogni spazio di relazione, non solo quello privato ma anche (e in certi casi soprattutto) quello economico e istituzionale. Sono ‘motori generativi’ che, una volta accesi, si riposizionano sulla base di esigenze pratiche ed economiche e vivono anch’essi la parabola di ogni esistenza: sviluppo, apice, declino. I social costituiscono ormai una sorta di palinsesto emotivo e generazionale: si differenziano e attraggono utenti a seconda dell’uso che se ne può fare e di specifiche esigenze a cui sono più o meno in grado di rispondere. Così Facebook è preferito, secondo i dati a nostra disposizione, dagli over 40, Instagram dai ventenni e dai trentenni, TikTok dalla generazione Z. Le novità sono continue e il riposizionamento tumultuoso: si pensi all’ascesa di Twitch, la piattaforma di streaming che promette di rivoluzionare la fruizione dei contenuti televisivi». La stessa pervasività dei social, il fascino che emanano e il disorientamento che producono, determina spesso una polarizzazione di opinioni riguardo al fenomeno. Amendola ha una visione chiara: «È innegabile che il digitale sia entrato in tutti i processi sociali – relazionali, comunicativi, professionali – e abbia occupato molti spazi dell’affettività e dell’emotività. Il mio giudizio è essenzialmente positivo, soprattutto guardando al presupposto di partenza. I social colmano vuoti di solitudine, sono un riempitivo sociale, un modo per rafforzare, ampliare e recuperare i legami sociali e per facilitare gli approcci relazionali. Hanno una funzione positiva anche dal punto di vista lavorativo: hanno ‘mandato in pensione’ alcuni lavori, ma ne creano continuamente di nuovi, stimolando nuove competenze professionali che sono centrali soprattutto nell’universo giovanile. La cosa più importante è l’uso intelligente, strategico dei social. L’aspetto negativo di questi strumenti è determinato dall’abuso, dallo ‘scroll’ infinito che diventa dipendenza. Credo che la parola chiave, e lo dico anche ai miei studenti, sia ‘consapevolezza’. Fare un uso consapevole dei social, usarne il meglio, stabilire una soglia di interesse che disciplini la convenienza dell’accesso. In questo campo hanno un ruolo fondamentale le famiglie e il sistema educativo, la scuola». Un elemento peculiare all’interno della galassia dei social è l’affermazione della figura dell’influencer, una sorta di grande consigliere, e talvolta di vero e proprio idolo mediatico, che attira l’attenzione e sposta il consenso del popolo del web. «Gli influencer – spiega il professor Amendola – sono in qualche modo sempre esistiti. Si pensi ai ‘maitre a penser’ e agli ‘opinion leader’ dei secoli scorsi. Certo la figura specifica dell’influencer è nata nel mondo dei social. Lo si può definire come un intermediario fortemente informato, che esprime opinioni, condiziona i consumi, crea una propria community. Questo in virtù di una specifica ‘competence’, una competenza professionale settoriale lucida e leggibile, che si accompagna a una grande capacità comunicativa e soprattutto a una ‘brand reputation’, una certa credibilità del proprio marchio che si costruisce attraverso operazioni di marketing a tavolino non meno che attraverso il carisma e la fortuna». La recente vicenda di Chiara Ferragni, attaccata dalla sua stessa ‘fandom’ per un’operazione economica nebulosa con l’azienda Balocco, evidenzia forse un corto circuito nel sistema di fiducia. Amendola amplia il ragionamento: «Anche gli influencer hanno una loro parabola. Come tutti i membri dello star system, sono soggetti alla caduta; e, anzi, la caduta è un’eventualità che la stessa folla adorante auspica, come prova di fallibilità e umanità. Il caso di Chiara Ferragni dimostra come, ancora più che raggiungere il successo, sia difficile mantenerlo, al prezzo di un continuo aggiornamento e di una costante capacità di ‘stare sul pezzo’. Chiara Ferragni è incappata in un errore di comunicazione: ha mostrato disattenzione e approssimazione a fronte di un’immagine solitamente glamour, fondata sul luccichio e il perfezionismo, ed è stata punita dai suoi stessi follower che si sono sentiti traditi. Ci sono elementi imponderabili, ma di base si sta parlando di marketing: un gioco serio con le sue regole».
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