Il Decreto Rilancio ha previsto, dove possibile, il lavoro agile (o smart working) per lavoratori pubblici e privati. Potrà essere applicato fino alla cessazione dello stato di emergenza, appena prorogato fino al 15 ottobre, e comunque non oltre il 31 dicembre 2020.
Se prima dell’epidemia di Covid-19 erano circa 480mila le persone che lavoravano in modalità “smart”, nelle settimane di lockdown i lavoratori svincolati dall’ufficio sono diventati più di un 1.800.000, secondo i dati del Ministero del Lavoro diffusi il 29 aprile scorso.
Moltissimi lavorarori vorrebbero continuare con questa modalità
Da un’indagine condotta da Cgil e Fondazione Di Vittorio su 6.170 persone, è emerso che il 94% dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato vorrebbe continuare questa tipo di esperienza.
Per le grandi realtà del settore privato lo smart working non è una novità. Già nell’ottobre del 2019 lo confermavano i dati raccolti dall’Osservatorio “smart working” del Politecnico di Milano, che studia il fenomeno dal 2012. Attenzione però a non confonderlo con il telelavoro. In questo caso si tratta di avviare progetti specifici in cui la possibilità di lavorare da casa è solo uno degli aspetti da considerare.
Lo smart working piaceva anche prima della pandemia
Un dato importante, emerso anche prima della pandemia, è che il 78% dei lavoratori che già avevano testato questa modalità si dicevano soddisfatti del miglioramento dell’equilibrio fra lavoro e vita privata. Solo l’8% delle aziende, inoltre, si mostrava disinteressata di fronte alla possibilità di attivare forme di lavoro agile, per una certa resistenza dei vertici o per timore di non riuscire a garantire con efficacia la sicurezza dei dati.
Solo nella metà dei casi, per quanto riguarda le aziende private, lo smart working è concepito come lavoro da casa. La restante parte adotta invece un modello completo che prevede anche un ripensamento degli ambienti e non solo una flessibilità di luogo e orario.
Un possibile ponte verso il pensionamento?
«Per gli over 60 avere un accesso al lavoro in situazioni che richiederebbero interazioni più complesse può effettivamente essere una facilitazione – spiega lo psichiatra Leo Nahon -. Soprattutto dove si siano ridotte le capacità di interazione multipla. Certo bisogna tenere conto della dimestichezza con la tecnologia, capacità specifica che non può essere data per scontata».
Professor Nahon, lo smart working potrebbe essere un ponte verso il pensionamento che ne mitighi l’impatto psicologico?
Perdere il lavoro o terminarlo per la pensione è una sorta di lutto che ha a che fare con diverse dimensioni: la persona si percepisce in termini di produttore di reddito, ma soprattutto per la capacità di condivisione delle proprie capacità con quelle degli altri. Se questo processo si interrompe in modo brusco e non graduale, le possibilità di adattamento sono inferiori. È noto che molte persone arrivino alla pensione in apparenza felicemente e poi la nuova situazione emerga come trauma. Quindi, un percorso graduale può certamente aiutare ad adattarsi meglio. Ma lo smart working malgrado tutta la comprensibile retorica sull’economicità, la comodità e velocità, è in realtà una modalità di lavoro che penalizza l’interazione di gruppo “incarnata” negli altri.
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